Le case cambiano, si trasformano sotto la spinta delle persone, che vanno vengono invecchiano muoiono. Così, senza virgole, cioè senza che ci sia una spinta interna, un vero senso. Hebe Urhart riesce a riprodurre nella narrazione una moviola lenta, per la quale si fissa l’attenzione in un punto, che è il carattere del personaggio, la sua voce particolare, mentre i punti di vista si susseguono, in una variazione cadenzata, ma intanto tutto intorno cambia, il contesto, la casa, la vita del personaggio, che invecchia, ma rimane fedele alla sua particolare cifra.
Così vediamo il padre, la madre, Domingo, Atilio, Maria, i tre figli, Teresa, moglie di Domingo e la loro bambina, Nidia. Ognuno diverso, ognuno sostanzialmente incapace di dialogare davvero con gli altri, ognuno davvero solo. L’interazione vera non è quella dei dialoghi, segnati da una profonda impotenza, descritta però dall’autrice in un modo che oscilla fra il disincantato e l’incantato, che pare l’imprinting letterario sudamericano. Dicevamo, l’interazione vera non è quella dei dialoghi, ma forse quella della voce narrante con ognuno dei personaggi, che sono amati, capiti e “sentiti” solo da questa immedesimazione, che contagia il lettore e che qui ricorda l’artificio della regressione di Verga. Siamo chiamati a ragionare con l’ottica di ogni personaggio, che non è compreso da nessun altro se non dall’autrice e dunque da noi.
La narrazione scorre apparentemente tutta uguale, ma al centro c’è uno spartiacque: c’è un agnellino sgozzato davanti a una bambina che lo amava e c’è il padre, che muore, così estraniato da se stesso, così perso e cosciente del male che viene a prenderlo, un male che è tristezza, che è percezione straziante di perdita, che è un lento tristissimo venir meno di ciò che era fondamentale per quell’io, che prima c’era e poi non c’è più, perché muore, invecchia, diventa matto.
Maria e la sua follia sono il cuore del rifiuto di questo male ingiusto, che nasce all’inizio dal blando rifiuto della madre di capirla, di amarla così com’è. È la storia di un’esistenza non compresa, patologicamente incapace di rivelarsi a chi sta fuori, e per questo impazzisce, reinterpreta il mondo nell’unico modo che sa, destinato a non essere capito da nessuno, tantomeno dai luminari della modernità.
C’è un bene vagabondo, svagato e, per questo, ancora più commovente, e si ritrova nella gentilezza di Atilio, in Rodolfo ed Elena che costruiscono case, od osterie aperte all’altro – e vi traslocano -, dolci, piene di fiori, case corrispondenti, ma anche queste vengono cedute, espropriate, lasciate, come se il trasloco, cioè l’abbandono di quel che c’era prima, il mutamento, fosse la condanna della vita, come se la vecchiaia e la morte fossero il trasloco supremo, inevitabile.
Traslochi è un libro che spesso fa sorridere, per il tono ironico, leggero eppure partecipe, della voce narrante, che sembra l’unica capace di vedere questo triste traslocare da se stessi, pure in quei personaggi così stregati dalla modernità da non saper vedere al di là della fulgida apparenza, come Domingo, Teresa, il dott. Ramondi, la signora Brown, eppure è un libro che lascia un’orribile sensazione di disagio, una perplessità come quella della madre, che continua a pregare Dio chiedendosi perché le cose non sono “giuste”.
Questa è la grande letteratura? Probabilmente sì.
Autore: Hebe Uhart
Titolo: Traslochi
Titolo originale: Mudanzas
Traduttore: Maria Nicola
Editore: Jaca Book
Pagine: 126
Prezzo: € 12,00 brossura;
Data pubblicazione: 28 maggio 2015