Il documentario Il regno dei sogni e della follia (The Kingdom of Dreams and Madness) di Mami Sunada, dedicato al leggendario Studio Ghibli, segue un approccio multilineare e magnetico. Si parte dal presente (il documentario è stato girato tra 2012 e 2013, durante la produzione dei lungometraggi Si alza il vento e La storia della principessa splendente), per poi fare incursione più volte nel passato, seguendo molteplici linee temporali, sia dello studio che dei suoi membri, e infine sottintendere un’implicita domanda rivolta al futuro. Domanda dalla risposta incerta perché, com’è noto, Miyazaki Hayao con Si alza il vento ha firmato il suo addio ai lungometraggi animati.
Tre sono le linee conduttrici principali: i giganti Miyazaki, Suzuki, Takahata.
Dal punto di vista cronologico, il primo ispiratore dello studio è Takahata Isao (regista, tra gli altri titoli, di Una tomba per le lucciole e La storia della principessa splendente), che per i tre quarti della pellicola è evocato dalle parole dei restanti due e quando entra in scena, verso la fine, quasi pare un’entità suprema incarnata.
Miyazaki Hayao (più famoso di Takahata in Occidente, è il regista, tra gli altri titoli, di Totoro, La città incantata, Si alza il vento) è colui che allo studio ha dato il nome e, per così dire, l’impronta internazionale: “Ghibli” è un aereo di produzione italiana impiegato nel secondo conflitto mondiale. Nomen omen, se si pensa a quanto la tematica del volo sia stata sviscerata dai suoi film in tutte le declinazioni possibili, dalla pura meccanica al nucleo concettuale e metaforico.
Ma la figura per i profani forse più interessante è quella di Sukuki Toshio, il produttore che è il grande mediatore tra i due noti registi, dotati di personalità tanto uniche e forti da rendere necessario un intermediario di caratura tale da intuire, prefigurare e predisporre l’assetto dello studio. In principio è Suzuki, che all’inizio degli anni Ottanta lavora per la Tokuma Shoten, a ricevere l’incarico di lanciare una rivista d’animazione (la futura “Animage”): essendo digiuno sull’argomento, cerca di informarsi e conosce in tal modo Miyazaki Hayao, al quale lo stesso Suzuki commissiona un manga da serializzare sulla rivista. Quel manga era Kaze no tani no Nausicaa, che poi diventerà un celebre film, il cui successo spingerà i tre (Miyazaki, Suzuki e Takahata) a fondare lo studio Ghibli.
Comincia così un inebriante giro di giostra: quanto lavora, durante la produzione, Miyasan (Miyazaki Hayao)? Dalle 9 alle 11 di sera, festivi e sabati compresi, riservandosi come unico giorno libero la domenica, in cui va non di rado a ripulire un fiume vicino la sua abitazione. Gli impiegati, al Ghibli, definiscono l’azienda una “scuola”, e ogni giorno fanno esercizi ginnici giornalieri predisposti per loro, guidati dalla radio. Assistiamo quindi, nello specifico, alle fasi di produzione e realizzazione di Si alza il vento. Incontri per la promozione, la scelta dei gadget, riunioni per decidere i doppiatori: scopriamo come per la voce protagonista del film sia stato proposto Hideaki Anno (regista di serie animate quali Evangelion e The secret of blue water), e ci viene mostrato il suo provino. Apprendiamo che Miyasan e Anno si sono conosciuti nell’ambito della realizzazione di Nausicaa e che Miyasan definisce Anno “un alieno”, poi sostiene che Takusan (Isao Takahata) non vuole finire il capolavoro della sua vita (La storia della principessa splendente), la cui data di proiezione, in effetti, prevista come contemporanea a quella di Si alza il vento, slitterà. Takahata Isao è più grande di cinque anni di Miyazaki ed è stato il suo maestro. Il documentario mostra quanto il loro incontro sia stato fondamentale per far nascere lo studio, di come insieme abbiano cominciato a lavorare in Toei (dove scopriamo che Miyasan ha ricoperto il ruolo di sindacalista!) per poi abbandonare l’azienda e realizzare una storica serie animata (Heidi). Pecore di peluche, da un’esposizione su Heidi, si affacciano ora dalla finestra dell’abitazione di Miyasan: il regista sostiene che gli dispiace buttarle via.
Piccoli intermezzi di vita quotidiana: la gatta che gira libera tra le stanze dello studio si avventura ovunque, tranne nell’angolo riservato a Miyasan; post-it, massime e disegni di incoraggiamento sono appesi qua e là; gli intercalatori commentano la vita al Ghibli e qualcuno sostiene che è meglio non stare troppo vicini a Miyasan se si vuole “proteggere se stessi”, perché più sei bravo e più si pretende da te.
La pellicola si nutre del rapporto che unisce questi tre uomini, dal cui sodalizio è nato lo studio, ma anche di opinioni e riflessioni di varia natura: l’importanza dei bambini, la cui presenza, dice Miyasan, lo spinge a stare “ancora al mondo”; le preoccupazioni per il futuro politico ed economico giapponese; la malinconia per il Ghibli che non ci sarà più; la serenità di chiudere il lungometraggio definitivo (Si alza il vento) e la dichiarazione della volontà di ritirarsi dall’animazione (smentita dall’incipit del discorso di addio: “Voglio lavorare per altri dieci anni…”); il presagio della tragedia di Fukushima (“Il cielo era chiarissimo in quei giorni”); la consapevolezza che l’animazione è un “sogno maledetto” (in quanto collegata all’industria e alla necessità del capitale)…
Tra tutti, restano impressi i ricordi della guerra vissuta da un giovanissimo Miyasan, che ancora oggi ricorda la bellezza del gesto del padre ventottenne (offrire della cioccolata a uno sfollato), seguita dalla presa di coscienza delle eterne contraddizioni della vita (il padre di Miyasan si guadagnava da vivere fabbricando pezzi di aerei da combattimento).
Le immagini scorrono spiegando questo e altro fino alla fine, in cui appare chiaro il senso dello Studio Ghibli dal punto di vista di Miyazaki Hayao. Alla fine del documentario, infatti, è Miyasan che, mostrando i tetti da una finestra dello studio, ci invita a guardare le cose dall’alto, mentre si susseguono sequenze tratte dai suoi film. Guardando le cose dall’alto, tutto assume una diversa prospettiva. Si può saltare, si può volare, si può stare in equilibrio sui fili elettrici, si può sorvolare la città da un aereo o da una scopa, saltando sulle onde del mare, attraversando le nuvole del cielo, protendendosi verso il limite.
“Cosimo salì fino alla forcella d’un grosso ramo dove poteva stare comodo, e si sedette lì, a gambe penzoloni, a braccia incrociate con le mani sotto le ascelle, la testa insaccata nelle spalle, il tricorno calcato sulla fronte. Nostro padre si sporse dal davanzale.
«Quando sarai stanco di star lì cambierai idea» gli gridò.
«Non cambierò mai idea» fece mio fratello, dal ramo.
«Ti farò vedere io, appena scendi!»
«E io non scenderò più!» E mantenne la parola.”
Italo Calvino, Il barone rampante, Mondadori, I Meridiani
Ecco, al di là del senso della fine o della sconfitta e accanto al peso della fatica dei membri fondatori, ciò che resta: lo studio Ghibli è stato come l’albero per Cosimo Piovasco di Rondò, il barone rampante che un bel giorno, di fronte a un piatto di lumache, decise di salirci sopra, per poi non scenderne più. Grazie al Ghibli, non solo Miyasan, Takusan, Suzuki e quanti ci hanno lavorato, ma anche noi spettatori siamo saliti sull’elce, abbiamo imparato a librarci in alto, a guardare il mondo da nuove prospettive e angolazioni.
Certo, bisogna proprio essere pazzi per decidere di vivere sugli alberi, per dare corpo a un sogno sorvolando giungle tossiche con rapida leggerezza, nutrendosi di ingranaggi esatti e molteplici, all’interno di una visibile coerenza… eppure su quell’albero ci siamo stati comodi, quel mondo è diventato il nostro mondo al punto che ora, a prescindere dal futuro, dimenticarsi dello Studio Ghibli appare semplicemente impossibile.