«Per trovare la via d’uscita da un labirinto», recitò infatti Guglielmo, «non vi è che un mezzo.»
Protendendo il lume in avanti mi spinsi nelle stanze seguenti. Un gigante di proporzioni minacciose, dal corpo ondulato e fluttuante come quello di un fantasma, mi venne incontro.
«Un diavolo!» gridai, e poco mancò mi cadesse il lume, mentre mi voltavo di colpo e mi rifugiavo tra le braccia di Gugliemo. Questi mi prese il lume dalle mani e scostandomi si fece avanti con una decisione che mi parve sublime. Vide anch’egli qualcosa, perché arretrò bruscamente.
«C’è qualcuno!» esclamai con voce soffocata.
«Se c’è, si è già accorto del nostro lume» disse Guglielmo coprendo tuttavia la fiamma con la mano. Poi si protese di nuovo in avanti e alzò la lucerna. Scoppiò a ridere.
«Veramente ingegnoso. Uno specchio!»
«Chi è costui?» domandò Frodo. «Non l’ho mai sentito nominare.»
«Forse no», rispose Gandalf, «gli Hobbit non hanno, anzi non avevano niente a che fare con lui. Egli è il grande fra i Saggi. La sua scienza è profonda e vastissima, ma il suo orgoglio lo è altrettanto, e qualsiasi intromissione lo indispettisce.»

E così frate Guglielmo da Baskerville e il suo novizio Adso da Melk, mentre esplorano il tenebroso labirinto della Biblioteca, incontrano inaspettatamente Gandalf il Grigio e l’hobbit Frodo.

Vi pare strano? Eppure, avventurandosi in quel preciso punto del labirinto, Guglielmo e Adso sono giunti esattamente davanti a uno specchio; inevitabile, pertanto, che vedano se stessi. Sono infatti due coppie speculari: vecchio e scaltro l’uno, dotato di facoltà superiori; giovane, ingenuo, pacifico ma coraggioso l’altro, disposto a seguire il suo Maestro fino in capo al mondo. Un doppio perfetto perché basato sugli opposti che si attraggono e si completano; e per gli antichi, la coincidenza degli opposti era addirittura Dio (Deus est coincidentia oppositorum).

il-nome-della-rosa-temi-e-considerazioni_0ae04d3f27f19caed043c348981358e8Il primo raffigura la Sapienza nella sua accezione più alta, la suprema conoscenza degli uomini delle cose, compresa la sfera del sacro, che i Cabbalisti simboleggiavano con l’Aleph, la prima lettera dell’alfabeto ebraico; il secondo, al contrario, è la natura incontaminata della coscienza umana allo stato originario, ovvero l’Uomo con la U maiuscola appena uscito dalle mani creatrici di Dio, quello privo di peccato. Per i Cabbalisti è Taw, l’ultima lettera, che nelle iscrizioni più remote aveva un segno a forma di croce; l’Uomo infatti è l’ultimo atto della Creazione, la completa e la chiude, e i cristiani del Medioevo ci videro il Redentore, il Messia Crocifisso, ucciso ma immortale. Adso e Frodo sono giovani, nel corpo come nell’anima; e inconsapevoli, perché come il primo Uomo non hanno ancora mangiato del frutto dell’Albero della Conoscenza, ovvero sperimentato la colpa. Nel Paradiso Terrestre, in effetti, la sapienza non serviva a molto; gli antichi chiamavano quest’Uomo perfetto, puro e incorrotto, con il nome di Adam subtilis (l’Adamo Sottile, ovvero spiritualmente superiore). Ma lasciamo in pace il nostro Alchimista e il suo fido Apprendista (questo esattamente la coppia raffigura nelle Saghe), ne riparleremo in seguito; in ogni storia che si rispetti, è buona norma cominciare il viaggio dal principio.

“Adamo poteva commettere peccati solo veniali, durante il tempo della sua innocenza”, scrisse nel secolo XIII il grande teologo scozzese Giovanni Duns Scoto (Adamus potuit peccare venialiter, in statu innocentiae). Verità che si attaglia perfettamente agli Hobbit, come alla maggioranza dei fraticelli che affollano operosamente la grande abbazia di Eco. Il Popolo, la massa di persone che fa da sfondo a una saga, è buono per definizione: l’umanità non ha una natura malvagia, ma piuttosto fallibile, povera e fragile, dunque tale che un ingegno superiore e perverso la possa traviare inducendola al male. Sono esseri dolci come il miele e resistenti come le radici di alberi secolari, dice Gandalf a proposito degli Hobbit, e dal prologo sappiamo che amano profondamente la natura, sono grassocci e gioviali, con una bocca monda da imprecazioni che sembra fatta apposta per ridere e mangiare. Pranzano ben sei volte al giorno e, dopo la sontuosa festa appena data, Frodo è costretto a cacciare due di loro che stanno cercando di demolire le pareti della cantina per dare fondo agli ultimi barili di buon vino.

E i monaci? Quanto al mangiare e bere, non sono certo da meno: l’immagine popolare del buon frate, eternata ad esempio da Fra’ Tac nella leggenda di Robin Hood, non ritrae esattamente la figura scarna di un asceta macerato dai digiuni: i monasteri medievali erano vere e proprie aziende efficientissime dove si produceva tutto, compresa la lavorazione dei metalli e in certi luoghi persino il vetro. C’erano vaste proprietà di terra che i servi lavoravano, opifici artigianali, magazzini e dispense. Tutto era regolato da una norma oculata di buon ordine ed economia: nei grandi centri come Corbie (Francia), dove abitavano centinaia di monaci, ogni giorno il dispensiere aveva il compito di contare quante bocche erano presenti, in modo da fare il pane nella quantità giusta, a evitare che avanzasse e dunque diventasse secco. I monasteri erano inoltre famosi per la produzione di birre pregiate, formaggi che oggi diremmo gourmand, marmellate e liquori… tutte cose che i fraticelli assaggiavano in abbondanza. Per assicurarsi che fossero venute bene, s’intende! Una certa ingordigia monastica va sicuramente messa in conto, come pure l’abitudine di alzare (ma non troppo) il gomito. Sentite cosa dicono i versi di questa canzone medievale:

Vinum bonum et suave
bibit abbas cum priore
et conventus de peiore
bibit cum tristitia!

(Il buon vino profumato
va all’abate a va al priore,
al convento va il peggiore
che lo beve sconsolato!)

Se i fraticelli non vi sembrano abbastanza Hobbit, allora, pensate ai bravi montanari che abitano Forks nella saga di Twilight, il padre di Bella Swan, i suoi amici e conoscenti senza poteri: tutta brava gente alquanto semplice, contadini nell’anima anche se svolgono altri lavori. Credono nel bene e nell’amicizia, nel valore della solidarietà, e sono vigilati da esseri superiori e benevoli, sorta di angeli custodi che vogliono la loro salvezza.

E il Medioevo, direte voi? Lo troverete, fidatevi. Non è un caso se Tolkien ambienta le sue gesta in un luogo chiamato “Terra di Mezzo”: è una traccia importante, visto che Età di Mezzo traduce fedelmente la parola Medioevo (dal latino medium aevum). Il nome inquadra un arco cronologico che va dalla caduta dell’Impero Romano alla fine del Quattrocento, e fu coniato durante l’Illuminismo con intento dispregiativo: si riteneva che fosse infatti un’epoca di transizione (in mezzo, appunto) fra due momenti di grande splendore della civiltà occidentale, come lo erano stati la Roma dei Cesari e il Rinascimento. Epoca buia, dunque, di guerre e devastazioni, invasioni di popoli pagani, talmente feroci da sembrare demoni che corressero liberamente sulla terra… Ma di demoni e Orchi, parleremo nei prossimi articoli.

Il Popolo felice

Vi chiederete perché mai sia Tolkien che Eco pongano il primato, la vittoria e anche le chiavi della scoperta fondamentale nelle mani di qualcuno che, bonariamente, potremmo definire un sempliciotto. Vi dico la mia impressione. Non sta forse scritto: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”?

Ne Il Signore degli Anelli c’è una fortissima connotazione religiosa, mentre Il nome della Rosa è addirittura ambientato in un monastero. Ma c’è qualcosa di più che l’obbedienza a un semplice regolamento religioso, e la scelta deriva da una sapienza molto antica, vecchia quanto l’uomo stesso: lo scaltro, colui che congegna sempre inganni e macchinazioni, non tiene conto degli imprevisti che inevitabilmente capiteranno, dunque molto spesso finisce per cadere vittima dei suoi stessi tranelli. La persona semplice, ovvero chi pensa a migliorare se stesso senza danneggiare gli altri, crescendo con fatica e in modo onesto, alla fine compie un percorso più rapido e diretto verso la sua meta. Investe energie solo su di sé; e i frutti, alla fine, si vedranno.

Siete pronti per incominciare il viaggio? Benissimo. Allora, seguite attentamente questo racconto, e provate a decifrare la sua origine.

Il Popolo è discreto e modesto, ma di antica origine, meno numeroso oggi che in passato; amante della pace, della calma e della terra ben coltivata, il suo asilo preferito era una campagna scrupolosamente ordinata e curata. Noncuranti del resto del mondo, abitato da strani esseri, conducevano in quel ridente angolo della terra una vita talmente ordinata e ben organizzata che finirono per credere che pace e prosperità fossero normali nonché un diritto di ogni popolo ragionevole. Non avevano mai amato la guerra, né combattuto fra di loro. Così, benché possedessero poche armi, le adoperavano unicamente come trofei, appese ai muri e sui camini.

Pacifica e tranquilla, questa gente veniva però da tempi molto oscuri, e la prosperità di cui godeva era frutto di un lungo lavoro, di una ricostruzione dopo una catastrofe immane:

Una lunghissima decadenza aveva scarnificato città, villaggi, fattorie, riducendoli di numero, gettandoli spesso nel nulla, facendone diminuire paurosamente gli abitanti, alzando e disseminando cumuli di rovine davanti agli occhi dei pochi superstiti. All’epoca della nostra storia, comunque, i Giorni della Fame (1158) erano molto lontani, e il Popolo aveva ritrovato il benessere. La terra era ricca e generosa, e prima dello stato di abbandono in cui l’avevano trovata, aveva conosciuto bravi coltivatori che curavano le fattorie, le piantagioni di granturco, i vigneti e i boschi di proprietà del re.

Impagabili agricoltori e amanti della natura, avevano una fibra morale robusta, che li rendeva capaci di sopportare grandi avversità:

Quel loro amore inesauribile per tutte le cose buone era dovuto al fatto che sapevano, se necessario, fare a meno e resistere alle ostilità degli uomini e alle avversità della natura, tanto da destare meraviglia in coloro che non li conoscevano bene e che di loro vedevano soltanto i pancioni e i visi ben pasciuti. Più che belli i loro visi erano generalmente gioviali, illuminati da occhi vivacissimi e guance colorite, con una bocca fatta per ridere, bere e mangiare.

Accolto con benevolenza, il nostro narratore si addentra dunque in mezzo a loro; certe abitudini particolari lo stupiscono:

Il cellario era un uomo pingue e di aspetto volgare ma gioviale, canuto ma ancor robusto, piccolo ma veloce; benché tendano ad essere grassocci e piuttosto pigri, sono agili e svelti nei movimenti. Inclinavano a stabilirsi definitivamente in un posto, e conservarono a lungo l’antico costume di vivere in caverne e gallerie sotterranee. Ci condusse alle nostre celle nella casa dei pellegrini. Per quella notte avrei potuto dormire in una vasta e lunga nicchia che si apriva nella parete della cella, su cui aveva fatto disporre della buona paglia fresca. Poi ci portarono vino, cacio, olive, pane e della buona uva passa, e ci lasciarono a rifocillarci. Mangiammo e bevemmo con molto gusto.

hobbitCapito di chi stiamo parlando? Forse pensate agli Hobbit, e vi aspettate la festa grandiosa di Bilbo Baggins: avete colto nel segno. Oppure, riconosciuta la voce inimitabile di Adso da Melk, siete convinti di aver messo piede in un’abbazia “piccola ma ricca”, come disse l’Abate con sussiego; fra poco, il novizio descriverà l’aspetto inconsueto del suo maestro Guglielmo da Baskerville. Vero anche questo. Il pezzo è stato montato con un banale taglia-incolla di frasi tratte dai due famosi capolavori, con qualche aggiustamento minimo, e un intruso scelto ad hoc: la descrizione di come appariva l’Europa all’alba del medioevo, ovvero il secolo VII che segue il declino dell’Impero di Roma e le invasioni barbariche. È un brano del medievista Vito Fumagalli da un’opera che porta un titolo eloquente: Paesaggi della paura.

Sono proprio i fraticelli di san Benedetto, gli antesignani degli Hobbit; la vita, i gusti, il temperamento del Popolo è stato fedelmente scritto in base a quanto si sapeva e si poteva immaginare su di loro. Pacifici e laboriosi, non toccano le armi, vivono sempre in comunità, si dedicano ai lavori della terra con amore e devozione; e, proprio come gli Hobbit, solo pochissimi fra loro sanno leggere e scrivere. Lo stesso nome richiama immediatamente la parola hobby, che in inglese indica un’attività magari anche lavorativa, ma svolta per puro piacere: gli Hobbit curano la terra con sommo gusto. E per i monaci? Per loro, è addirittura qualcosa che va oltre, perché fa bene al corpo ed eleva lo spirito. Gli uni e gli altri amano mangiare e bere: se il Popolo è abituato a pranzare sei volte al giorno, l’immagine tradizionale del buon frate, grassoccio e ben pasciuto, sorridente e con le guance rosse, non è affatto ascetica. Il povero Frodo deve cacciare di casa un gruppo di amici i quali, dopo aver banchettato per ore a sue spese, stanno demolendo i muri della cantina per dar fondo ai barili di vino rimasti; e una famosa canzone del medioevo cantava sui monaci proprio così:

Obietterete che i religiosi non si sposano, mentre gli Hobbit hanno famiglie numerose e la passione per la genealogia. Vi rispondo che il Popolo è ritratto come innocente e pudico, mentre i fraticelli, dal canto loro, non è che fossero proprio tutti tutti senza peccato… Com’è possibile che accada una simile contaminazione dei contenuti, un “pastrocchio” di universi letterari che ha persino la sfrontatezza di sembrare coerente? Semplice, ne Il Signore degli Anelli, Tolkien voleva raffigurare la crisi di un mondo che era stato ricostruito dopo una catastrofe, eppure intravvedeva all’orizzonte la minaccia di una nuova ecatombe. Conoscendo il medioevo molto bene, ha incuneato la sua descrizione in un momento abbastanza preciso (fatto salvo un briciolo di licenza poetica): l’epoca successiva a Carlo Magno, il grande Re pacificatore e unificatore del mondo, tempo di prosperità materiale e culturale, minacciato però da imminenti invasioni di esseri malvagi, spietati, sacrileghi. Il nome del luogo in cui si svolgono i fatti è altresì eloquente: Terra di Mezzo.

Fra l’anno 850 e il 900 circa, l’Europa fu devastata da un’ondata terribile di invasioni. Erano scorrerie di feroci popoli guerrieri, e lasciarono un’eco profonda nell’immaginario collettivo. Normanni e Vichinghi scesero da Nord, mentre i Saraceni attaccavano da Sud, e infestarono tutta l’Italia meridionale arrivando a minacciare Roma e la basilica vaticana, il cuore simbolico della cristianità. Ma il pericolo peggiore era un altro. Dall’Asia remota piombarono sull’Occidente uno stuolo di cavalieri feroci e spietati, capaci di rievocare il mostruoso ricordo degli Unni di Attila custodito nelle orride pagine delle cronache storiche: erano gli Ungari pagani e selvaggi, che percorsero l’Europa centrale e occidentale in sanguinarie scorrerie. Non sarete sorpresi, a questo punto, di scoprire che la parola “Orco” è legata al nome Ungaro, e che il ritorno di un grande Re guerriero, erede di Carlo Magno, riunificò l’Impero e riportò la pace. Lo guidava il consiglio di un vecchio sapiente, un uomo straordinario che gli uomini del tempo ritenevano uno stregone…

Vediamo dovunque guerre, ascoltiamo lamenti. Le città sono devastate, le fortezze abbattute, sulle campagne è calato l’abbandono. Non c’è più chi coltivi la terra e nelle città mancano i capi. Il dolore segna gravemente i volti dei sopravvissuti, mentre i migliori sono scomparsi…

Non è proprio Gandalf il Grigio a parlare, ma papa Gregorio Magno che lamenta lo stato miserevole del suo tempo nella Sesta omelia sul profeta Ezechiele. L’avreste detto? Senza dubbio, i monaci ricostruirono l’Europa proprio come fecero gli Hobbit con la Contea. Sono gente pervasa da un’intensa volontà di rinascita che raggiunge le solitudini desolate, le selve popolate da bestie pericolose, vi scova antiche rovine sepolte sotto i rovi, le restaura per insediarvi una piccola comunità isolata dal resto del mondo violento. Sono piccoli eroi dotati di un coraggio straordinario, superstiti di un mondo finito in rovina.
Un Popolo pacifico e felice; e come in ogni Paradiso, si annida fra loro almeno un Serpente…

Lo spazio a nostra disposizione è finito. Ma prima di lasciarvi, un piccolo enigma: chi è il più Hobbit, fra i monacelli de Il nome della Rosa?
the author

Barbara Frale è nata a Viterbo il 24 febbraio 1970, Pesci della prima decade, benché non si conosca l’ascendente (fra Bilancia e Scorpione, la retta cade esattamente sul confine). Laureata in Conservazione dei Beni Culturali a Viterbo, Dottorato all’università “Ca’ Foscari di Venezia”, un triennio di specializzazione sui documenti antichi presso la Scuola dell’Archivio Segreto Vaticano dove è rimasta in qualità di Ufficiale (si dice proprio così!), e una certa passione per i simboli. Amava la storia e ne ha fatto un mestiere; amava la narrativa, e ne ha ricavato il suo hobby principale; adesso si ritrova sospesa fra questi due amori, scrivendo in treno durante i viaggi da pendolare, e subendo i giusti rimbrotti del marito seccato di vedere gli scaffali di casa ingombri di libri parcheggiati in terza fila. Altre passioni? Coltivare rose di razze antiche, e cercare rifugio dallo stress quotidiano nell’incredibile libreria Il Gorilla e l’Alligatore.

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