Davvero simpatica e interessante l’idea di mettere insieme alcune parole delle lingue più disparate che hanno in comune un carattere molto particolare: essere intraducibili. Si tratta di parole (sostantivi, verbi o aggettivi) il cui significato può essere espresso in altre lingue soltanto con delle perifrasi.
Questo non è un libro da diporto, nonostante il titolo giochi con l’understatement. E questo si può dire non solo perché i dispiaceri in questione non sono affatto piccoli, ma perché l’autrice attraverso il tono leggero e quasi giocoso che innerva il romanzo parla di un dolore esistenziale “alto” – nel senso latino di altus, cioè profondo – del quale non si può davvero parlare se non così, riducendolo ai piccoli frammenti di tempo, di vita, di noi stessi.
Stefano Amato ci ha abituati a romanzi in cui l’immaginazione restituisce e assicura alla realtà il giusto orientamento e dopo Il 49esimo Stato torna a parlare della sua terra, la Sicilia dal 1987 al 1992, l’anno dell’attentatuni al giudice Falcone, sferzata dai venti violenti e beffardi di Cosa Nostra.
Ho cominciato a leggere questo libro subito dopo aver affrontato la lettura de L’educazione siberiana di Nicolai Lilin. Già la dedica introduttiva mi piacque, riportava l’art. 34 della Costituzione: “La scuola è aperta a tutti”, subito seguito da un’intuizione dell’Ing. Baladelli: “… purtroppo”. Queste due frasette mi hanno indotto a pensare che scuola e cultura non sono la stessa cosa.
I romanzi di Paolo Nori come La banda del formaggio risultano sempre un’esperienza entusiasmante. Leggere Nori, secondo me, significa lasciarsi prendere dalla storia, seguire il flusso dei pensieri senza tentare di ingabbiarli in una forma, farsi accompagnare dallo scrittore che li snocciola gradatamente. A un certo punto ci si accorge che le vicende si compiono, si rivelano inaspettatamente in un modo chiaro e preciso. E poi, giunge del tutto a sorpresa che La banda del formaggio sia la narrazione di un vero e proprio intrigo giallo.
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