La commedia di Aristofane, Le Rane, fu rappresentata per la prima volta nelle feste Lenee a gennaio del 405 a. C. e risultò prima. Quest’anno nella 53^ edizione del Festival al Teatro Greco di Siracusa, che si svolgerà dal 6 maggio all’8 luglio 2017, le Rane saranno rappresentate insieme alle tragedie “Sette contro Tebe” e le “Fenicie”. Mi si è offerta, pertanto, una stimolante occasione per intraprendere un viaggio nell’Ade, dove la commedia è ambientata.
Quella che presento è una tragedia con due protagonisti umani e due divini – una donna e un uomo, che, pedine delle dee Afrodite e Artemide, rivelano la validità delle leggi dell’amore legittimo e della famiglia –, ma soprattutto un dramma che illustra la polarità di due idee, la materialità e la spiritualità, entrambe incomplete se non siano integrate in una giusta e moderata mescolanza.
La tragedia sofoclea, rappresentata per la prima volta nel 442 a.C., è una delle più note del tragediografo greco, evocata di tanto in tanto per rinvenire affinità con accadimenti dell’attualità. La figlia di Edipo, una ribelle, diremmo oggi disobbediente civile, incarna la philia, l’amore verso il fratello defunto, considerato nemico della città anche dopo la sua morte e si scontra ferocemente con il re di Tebe, suo zio Creonte, garante delle leggi dello Stato, che ritiene superiori a quelle etiche e religiose della famiglia/clan.
Al secondo appuntamento con l’attrice Elisabetta Pozzi, tra i principali riconoscimenti da lei conquistati annoveriamo un Premio Duse alla carriera, quattro Premi Ubu, Premio David di Donatello e da ultimo il premio nazionale Aroldo Tieri in ricordo dell’attore calabrese, esploriamo il mondo dei due grandi tragici Eschilo e Sofocle, che l’attrice ha a lungo e con ampi successi affrontato. Nell’ultima parte si parlerà di Euripide e del suo genio teatrale rivoluzionario.
Se sei convinto che i tuoi beni ti resteranno per tutto il tempo, allora guardati bene dal farne parte a qualcuno. Se invece non ne sei veramente padrone, se quello che hai non appartiene a te, ma alla fortuna, non devi esserne geloso. Forse già la fortuna sta per toglierteli e darli a un altro, forse indegno. E per questo direi che tu devi, finché li possiedi, usarli con generosità, aiutare gli altri, agevolare quante più persone tu puoi.
Per la prima volta vi presento in questa rubrica una commedia della Nea, la commedia nuova, la fase del IV-III secolo a. C. della produzione comica che riflette il cosmopolitismo successivo al dominio macedone e porta in scena temi universali: l’instabilità della fortuna, l’amicizia, la solidarietà, i conflitti familiari. L’autore più rappresentativo della Nea è l’ateniese Menandro, allievo di Teofrasto, successore di Aristotele e autore dei Caratteri, una sorta di summa degli svariati profili psicologici e sociali presenti nel panorama contemporaneo.
C’è un antico detto tra i mortali, che la felicità di un uomo, giunta a compimento e divenuta grande, genera figli e non muore senza prole, ma dalla buona sorte germoglia per la stirpe dolore insaziabile. Diversamente dagli altri, io ho un pensiero mio. È l’opera empia che ne genera un’altra più grande dopo di sé, simile alla sua stirpe. Dalle case rette nella giustizia proviene una sorte ricca di bella prole sempre.
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