Come i film, i formaggi e le certezze, anche i libri invecchiano in modo diverso, alcuni meglio di altri. Ci sono quelli che diventano classici e quelli che si portano appresso la data di scadenza, e a riprenderli in mano dopo anni li si trova ridicoli, incredibilmente stupidi o, nel caso migliore, belli ma distanti.
Le case cambiano, si trasformano sotto la spinta delle persone, che vanno vengono invecchiano muoiono. Così, senza virgole, cioè senza che ci sia una spinta interna, un vero senso. Hebe Urhart riesce a riprodurre nella narrazione una moviola lenta, per la quale si fissa l’attenzione in un punto, che è il carattere del personaggio, la sua voce particolare, mentre i punti di vista si susseguono, in una variazione cadenzata, ma intanto tutto intorno cambia, il contesto, la casa, la vita del personaggio, che invecchia, ma rimane fedele alla sua particolare cifra.
La facciata dell’edificio che si scorge scendendo dal treno è di un vivido color rosso ocra, prima di giungere all’ingresso si devono salire tre scalini di marmo bianco e solo quando si arriva in cima ci si accorge dell’insegna di latta sopra l’arco della porta, con su incisa una scritta bianca su uno sfondo verde: Hotel Madrepatria.
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