Stefano Valenti dopo il romanzo La fabbrica del panico, presentato al Liceo Classico “P. Virgilio Marone” di Gioia del Colle, dove insegno, si è inoltrato nelle pieghe poco conosciute della Storia, i movimenti delle Brigate Nere e dei ribelli della Valtellina durante gli anni della Resistenza.
E scrive un romanzo testuale, riporto la definizione contenuta nelle note dell’autore, di fede ardente per il potere combattente della parola, che in questo libro, camaleonticamente, riproduce il tarlo ossessivo del protagonista. Stefano Valenti è scrittore serio che si appassiona ai progetti di salde idee e li traduce in atti autentici di impegno esistenziale oltre che di scrittura letteraria. Lo si percepisce dalla sincera adesione alla vita turbata e percorsa da profonde passioni del protagonista, una persona realmente esistita Ulisse Bonfanti.
Nel novembre del 1994 il settantenne Ulisse, un metro e ottanta di altezza e una testa piena di ragnatele del passato, ritorna alla baita di montagna dove cinquanta anni prima le Brigate nere hanno appiccato un incendio di un fuoco rosso nella neve bianca. Ritorna per portare a termine una vendetta covata per tanto tempo e ora resa urgente dal vuoto assoluto che caratterizza la sua vita e dal ritorno al potere di un movimento che mutua il fascismo. Nel 1994 il primo governo Berlusconi ingloba esponenti del Movimento Sociale Italiano, che si richiama alle idee mussoliniane, pur essendo dichiarata illegale dalla Costituzione la riformazione del partito fascista. Ulisse che nel settembre del 1944 è entrato nella 40^ brigata Matteotti urla per l’indignazione e l’indecenza; si decide ad ammazzare Mario Ferrari per “mettere ordine nelle cose”.
Non è solo la sua storia quella che la voce narrante racconta, ma quella di Giuditta, sua madre, e quella di Nerina, sua sorella, le uniche donne che Ulisse ha mai amato. Nerina, appena quindicenne, è violentata, torturata per giorni dalle camicie nere e si ammala di nevrastenia, rivivendo ossessivamente nella sua mente le violenze subite. Non riesce a liberarsene e si impicca nel fienile della baita. Giuditta, dopo la morte di Nerina, va via dalla Valtellina, lavora per trenta anni al Cotonificio della Valsusa, partecipa alle lotte di fabbrica contro il padrone, si ammala di esaurimento nervoso, muore vegliata dal figlio che non denuncia subito il decesso per non allontanarsi da lei. Oltre che madre, è una donna abituata al sacrificio e alla fatica del quotidiano, punto di riferimento per Ulisse.
La malattia dei nervi contagia Ulisse e si materializza con allucinazioni, che sembrano reali, di immagini religiose e promiscue, crisi di agitazione, nervosismo e violenza verbale, mania ossessiva dell’ordine e della pulizia. È votato all’amore per Dio, essendo un fervente cattolico, e alla fede per il comunismo stalinista: il bianco e il rosso del titolo. Si sente un martire della fede religiosa e politica, lotta come un folle per la creazione di un mondo e di un uomo nuovo:
La rivoluzione era come l’adorazione, una cosa che dovevamo crederci, la rivoluzione prendeva il posto di Dio, e anche se Dio continuava a vivere dentro al mio cuore, lo raccomandavo di fare vincere la rivoluzione anche da noi, di fare vincere la libertà di noi contadini, di noi operai, di fare vincere il comunismo, e raccomandavo Dio di non dimenticare noi miserabili che in tanti a questo mondo pativamo.
Ulisse dopo l’esperienza partigiana sui monti entra in fabbrica dove rimane per quarantadue anni. Entra privo di qualunque formazione ideologica e ne esce convinto sostenitore della lotta di classe e con un esaurimento dei nervi rovinoso.
Lo scrittore giunge nell’ultimo capitolo del libro all’acme di un uso puntuto della parola civile quando denuncia la malattia che connota profondamente gli Italiani, l’ignavia, il non stare da nessuna parte, che ha permesso i crimini del fasci-nazismo. Erano in pochi a prendere le parti dei ribelli anti-fascisti ed ebbero paradossalmente il torto di essere pochi.
Nel dopoguerra si assistette a uno scenario deplorevole: le camicie nere furono amnistiate, azzerate le responsabilità politiche dei fascisti, le donne seviziate non ebbero un processo onesto perché la violenza non era considerata grave, presto la dimenticanza degli episodi più efferati divenne la norma da applicare costantemente e non vi fu seria giustizia a riparare i torti subiti dalla povera gente. La vicenda di Ulisse è sintomatica di un’Italia incapace di ricordare con i sentimenti di giustizia, di onorare con pietà coloro che ebbero una parte attiva nella lotta partigiana.
La scrittura si modella alla personalità di Ulisse e diventa febbrile, a tratti sgrammaticata, spezzata in frasi brevi che riproducono i pensieri veloci e pulsanti, le istantanee percezioni del paesaggio esterno, le incisive riflessioni sul passato e sul presente, le farneticanti visioni religiose. Il paesaggio dei monti della Valtellina è luogo dell’anima per Ulisse e per l’autore, in cui sono proiettati i deliri cromatici densi e forti, capaci di rendere scenografie immani, rese con toni lirici da brividi. Valenti mostra di essere un valentissimo narratore delle zone psichiche martoriate da un vissuto di violenza che difficilmente può essere riportato a un’esistenza decorosa e dignitosa.
È uno di quei libri potenti da leggere per conoscere la Storia e le storie intime degli ultimi, di quelli per cui la morte è migliore della vita, degli illusi, nonostante tutto, che, come i vinti verghiani, sono il portato della lotta per la vita.
Autore: Stefano Valenti
Titolo: Rosso nella notte bianca
Data di Pubblicazione: Marzo 2016
Casa Editrice: Narratori Feltrinelli
Prezzo: € 12,00