Barbara Fiorio è tornata a trovarci in libreria per presentare il suo ultimo romanzo, Qualcosa di vero pubblicato da Feltrinelli. L’autrice ci ha condotti nel mondo delle fiabe vere, raccontando, con sensibilità e leggerezza, l’incontro tra il mondo dei bambini e quello degli adulti e la nascita di un’amicizia straordinaria. Brillante e ironica, ha saputo stregare il nostro pubblico, coinvolgendolo in una vivace chiacchierata tra amici.
Barbara Fiorio è stata la nostra “fata madrina” nel 2011. Con il suo romanzo Chanel non fa scarpette di cristallo (ed. Castelvecchi), secondo romanzo dopo l’ormai introvabile C’era una svolta, inaugurò i nostri “incontri con l’autore”. Scrittrice italiana e docente di comunicazione, tiene laboratori di scrittura creativa e ironica. Dal 2014 organizza e gestisce il Gruppo di Supporto Scrittori Pigri, un laboratorio online.
Qualcosa di vero non è un libro di favole, né un libro per bambini. Le protagoniste di questa storia sono Giulia e Rebecca, una donna di quarant’anni e una bambina di nove che, una sera, per caso, s’incontrano, o meglio si scontrano, sul pianerottolo di casa. Giulia è reduce da una serata con amici e, lievemente alticcia, inciampa per caso in un fagottino. Si tratta di Rebecca, la figlia di nove anni della sua vicina, rimasta chiusa fuori casa, mentre la mamma non c’è. Giulia decide di dare ospitalità alla piccola e comincia a nascere tra loro un rapporto molto particolare. Ogni volta che la bimba resta a casa, senza la madre, Giulia le racconta le fiabe che adora, ma solo nelle loro versioni originali: quelle di Perrault, dei Grimm e di Andersen, dove i ranocchi si trasformano in principi solo se li lanci contro un muro, e dove non sono certo i baci a risvegliare le più belle del reame.
Ritorni al tuo primo amore, le fiabe, che raccontavi in modo ironico in C’era una svolta. Da dove nasce l’idea di riportarle sotto forma di romanzo?
Nasce un po’ da una sfida e un po’ dal caso. Era il luglio 2013 e stavo chiacchierando con il mio compagno. Mi dicevo dispiaciuta per la scomparsa di C’era una svolta, il mio primo libro, dove raccontavo le fiabe vere nella versione originale, con la mia chiave di lettura ironica. Andato esaurito e con la casa editrice chiusa, il libro è scomparso dalla circolazione. Gli avrei voluto dare una nuova vita e il mio compagno mi ha suggerito di trasformarlo in romanzo. Mentre cercavo di argomentare la mia convinzione che ciò non fosse possibile, mi rendevo conto che avevo già creato, nella mia mente, i personaggi principali: un adulto che racconta le fiabe e un bambino che le ascolta. E mi sono detta: «facciamoli inciampare uno nell’altro» e così è nata la storia di un’amicizia.
Giulia la protagonista del romanzo è una quarantenne che lavora come copywriter in un’agenzia pubblicitaria. «Non aveva mai avuto l’istinto di tuffarsi in una culla per mordicchiare i piedi di un neonato, non aveva mai smaniato perché le giovani mamme le lasciassero tenere in braccio il pargolo, non aveva mai pensato che gli escrementi dei cuccioli d’uomo fossero meno disgustosi di quelli d’altre razze… e si annoiava mortalmente a giocare con i bambini». Eppure instaura un rapporto intimo, quasi magico con Rebecca. Come mai?
Io credo che sia prima di tutto perché Rebecca bussa alla sua porta. Giulia non è andata a cercare nessuno, ci è semplicemente inciampata dentro. Giulia non è una cinica disincantata e, nel momento in cui una bimba le chiede di aiutarla ad addormentarsi, perché da sola non ci riesce, non può dirle di no. Inoltre Giulia tratta Rebecca come un’adulta e a Rebecca piace. Nasce un rapporto di reciproco rispetto oltre che d’amicizia.
Giulia è una copywriter e «per lei le parole erano tridimensionali, erano oggetti preziosi con cui fare magie». La parola “assennata” per esempio per Giulia «ha la consistenza della cipria». Da scrittrice quanta attenzione rivolgi verso la scelta della parola giusta? Sei un’istintiva oppure rifletti molto sullo stile?
Quando scrivo sono un’istintiva però posso fermarmi ore su una parola. Devo trovare la parola giusta perché per me le parole hanno un peso enorme. Una frase cambia il senso, anche a seconda di dove vengono messe le parole. Mentre scrivo sono sicuramente “rock” poi rallento e rifletto. Per chi non lo sapesse la copywriter è la figura in pubblicità che, nella coppia creativa, si occupa dei testi. I copywriter devono saper giocare bene con le parole e conoscere le figure retoriche. Per Giulia le parole hanno un’importanza fondamentale e anche per me, in narrativa.
Rimanendo sempre nell’ambito dello stile, tu adotti spesso un registro ironico nella narrazione. Perché?
Perché è la mia chiave di lettura del mondo. L’ironia mi appartiene quando spiego, quando racconto, quando chiacchiero. Provenendo da una famiglia ironica, mi viene naturale. Ovviamente so anche contestualizzarmi. Sono stata portavoce del presidente della provincia per dieci anni e purtroppo, in quel ruolo, l’ironia non aveva spazio. Non ne posso fare a meno, e non ne voglio fare a meno, perché credo che l’ironia sia quella forma stilistica che supera di un salto l’intelligenza e la cultura. Se non sei intelligente e colto non puoi averla. Attraverso l’ironia possiamo parlare di qualunque cosa, persino di un lutto, e alleggerirla, ma non essendo mai superficiali, semplicemente scendendo in profondità in modo lieve. L’ironia è un grimaldello molto delicato, una forma raffinata di scrittura.
Qualcosa di vero è un romanzo costruito sul continuo raffronto tra finzione e realtà e su un ribaltamento del senso comune. Molte delle cose reali che circondano i protagonisti sono in realtà finte (il cibo surgelato che evoca i sapori della cucina della nonna, il lettore di e-book che ti trascina in un mondo virtuale, l’uomo perfetto che cela il suo essere un “mostro”) mentre le fiabe sono “qualcosa di vero”. Sei d’accordo? E, oltre alle fiabe, cos’è “qualcosa di vero”?
Sono d’accordo su questa lettura del romanzo. “Qualcosa di vero” sono tante cose. Innanzitutto le fiabe vere che Giulia racconta a Rebecca e che poi lei racconterà a scuola. L’amicizia tra Rebecca e Giulia e il linguaggio delle fiabe, che avvicina il mondo degli adulti e quello dei bambini, sono vere. Tutti i personaggi hanno qualcosa di vero, che celano nell’intimo, e che sarà svelato nel corso della storia. Qualcuno tempo fa scrisse «se le fiabe esistessero…». Beh, le fiabe esistono, poi dire che i personaggi siano reali è un altro discorso. E per chi non ci credesse anche Zorro esiste, ma questa è un’altra storia…
«Ma questa storia è vera?» chiede all’improvviso una delle bambine sedute nel pubblico.
«Questa storia non è vera ma è verosimile. I personaggi sono inventati ma la storia raccontata potrebbe accadere» risponde l’autrice.
«Anche noi scriviamo storie» interviene fiera la piccola Chiara. E inizia a raccontare delle loro protagoniste, che hanno il potere di saltare dalle finestre. «In fondo basta mettere un tappeto sotto» ci racconta Giada. E scopriamo che la fantasia dei bambini è ancora viva.
«Le vostre sono storie vere, continuate a scrivere perché è una cosa bellissima» dice loro Barbara Fiorio, mentre si ricorda bambina a giocare sul tappeto di casa, che poteva anche volare, perché quando si è bambini tutto può accadere. E Barbara, bambina, in fondo lo è ancora.
Giulia dice a Rebecca che le fiabe originali sono crudeli perché avevano il compito di raccontare la vita per preparare i bambini ad affrontarla. Quale può essere secondo te il compito delle fiabe oggi e per quale motivo sono state trasformate in una bugia idilliaca?
Io penso che sia bello, e che sia meglio, raccontare le fiabe come venivano narrate un tempo. Le fiabe nascono per preparare i bambini alla vita e la vita non è uno zucchero filato. Bisogna avere più fiducia nei bambini perché hanno i loro filtri, sono capaci di capire cosa è vero e cosa è finto. I veri mostri per i bambini sono quelli che incontriamo per la strada, non sono quelli delle fiabe. Io sono cresciuta con le fiabe dei Grimm, dove c’erano persone che venivano massacrate. Se qualcosa mi ha traumatizzato, certo non sono le fiabe. Le fiabe aiutano ad affrontare la vita e io mi fiderei molto più dei Grimm che di Disney. Non ce l’ho con Disney, ce l’ho con la tendenza a edulcorare tutto. Se avessi figli, li porterei a vedere tutti i film della Disney ma leggerei loro le fiabe dei Grimm.
Dal pubblico interviene Stefano, autentico cultore di fantasy. Felice per essersi aggiudicato il suo personale “Graal”, una copia dell’ormai introvabile C’era una svolta, con dedica dell’autrice, chiede delucidazioni su una versione un po’ piccante della Bella Addormentata, di cui ha trovato traccia probabilmente sul web. Barbara Fiorio decide allora di chiarirci alcuni punti chiave sulle fiabe tradizionali.
Vi faccio una brevissima premessa. Le fiabe fanno parte di una tradizione popolare orale, che risale alla notte dei tempi. Perrault, i Grimm, Basile le hanno raccolte. L’unica eccezione è Andersen, che le ha scritte e inventate, quindi hanno un autore. Delle altre ne esistono ovviamente più versioni, perché in ogni stato venivano raccontate in modo diverso. Nella versione della Bella Addormentata di Perrault, la protagonista si sveglia appena il principe arriva, non ci sono baci quindi. I due si sposano immediatamente e, siccome lei «ha dormito cent’anni e non ha sonno», sono le parole di Perrault «si fanno coprire dal lenzuolo» e fanno quello che riusciamo facilmente a immaginare. Da quest’unione nascono due bambini, di cui una si chiama Aurora. La famosa Aurora della Disney in realtà è la figlia della Bella Addormentata. La storia poi prosegue, quindi quando loro si incontrano non siamo alla fine, ma solo a metà dell’opera.
C’è un personaggio molto curioso tra gli adulti. Si tratta di Leone, un attore teatrale ormai in pensione, burbero e solitario, che parla recitando versi di Shakespeare. Com’è nata l’idea di un personaggio così particolare?
È arrivato lui da solo, mentre stavo scrivendo. È un personaggio che amo moltissimo, un attore in pensione che vive sullo stesso pianerottolo di Giulia e Rebecca. Non mi sono ispirata a nessuno però amo moltissimo il teatro, i miei mi ci hanno portata la prima volta quando avevo solo quattro anni e ho lavorato quasi dodici anni in teatro, nell’ambito della comunicazione e promozione. Il romanzo stesso l’ho immaginato come uno spettacolo teatrale, con tre palcoscenici principali, l’agenzia pubblicitaria, la scuola e il pianerottolo. Ci sono poi altri due luoghi marginali, che per un momento avevo pensato persino di togliere, per restare fedele a questa struttura, ma si sono resi necessari ai fini della trama. Inoltre si parla di narrazione, sia nelle fiabe sia in pubblicità, e penso che Shakespeare ci stia benissimo in questo contesto.
A un certo punto della storia accade un evento particolare e per la prima volta le persone che vivono isolate nei loro appartamenti rompono i consueti muri dell’indifferenza e si schierano uniti. Li vedi come una sorta di famiglia allargata contemporanea?
È esattamente la mia idea, infatti mi piace molto la frase «un pianerottolo che diventa famiglia». Credo che la famiglia non sia solo frutto di un legame di sangue, per me la famiglia è rappresentata anche dalle persone che si scelgono. Io stessa ritengo di avere una famiglia allargata, composta da persone che non sono parenti ma amici molto stretti. Nel romanzo l’evento scatenante che non vi voglio svelare metterà i personaggi dinanzi a una scelta. Da che parte stare? Chiudere gli occhi o intervenire. La scelta che fanno i personaggi è la seconda. Penso che questa scelta possa cambiare la vita delle persone.
Tornando al mondo delle fiabe, posto che tutte le principesse sono un po’ stupide, tu per quale di loro provi maggiore simpatia?
Cenerentola senza alcun dubbio. È l’unica che lavora come una matta per ottenere ciò che vuole, è un’intraprendente. Insomma, una dorme in una bara, l’altra lancia le trecce, Cenerentola invece vuole andare al ballo, le viene impedito e lei trova il modo di andarci ugualmente. Prende e va, ci va per tre sere, si conquista il principe. E quando il principe arriva con la scarpetta lei dice subito «sono io!». Io ho stima di Cenerentola! È moderna, autonoma, indipendente. Le altre non sono moderne, sono sempre lì, ferme ad aspettare il principe. Lei se lo conquista, il proprio lieto fine.
Qualcosa di vero può essere letto come una favola contemporanea dove le nostre due eroine, dopo una serie di disavventure, raggiungono entrambe il lieto fine?
Sono d’accordo. Per me è un po’ una novità perché in Buona fortuna non c’era proprio un lieto fine, il finale era agrodolce. In questo romanzo ci si arriva faticosamente, e con qualche pugno nello stomaco, però il lieto fine c’è. È una regola delle fiabe classiche. Andersen sosteneva di non scrivere fiabe per bambini, perché le sue fiabe non avevano lieto fine. Nel romanzo non ci sono elementi fantastici però il lieto fine c’è.
Giulia insegna a Rebecca le fiabe vere e cosa insegna Rebecca a Giulia?
Secondo me Giulia è il personaggio che cresce di più. Ha una vita appagante, è una donna di successo, non si fa domande, perché ha il suo equilibro. Rebecca rompe questo suo equilibrio, tirandole fuori qualcosa che non prevedeva. Non sono solo sentimenti ma anche domande. Giulia comincerà a mettere in dubbio diverse cose e crescerà. Rebecca, come tutti i bambini, vede infatti il mondo in modo più semplice, lineare: le cose sono bianche oppure nere. Noi adulti, crescendo, cominciamo a vedere invece una vasta scala di grigi. Attraverso le domande poste da Rebecca, Giulia si renderà conto che a volte la bambina ha ragione. Giulia rappresenta la luce per Rebecca, però Rebecca è la porta che si apre per Giulia.
Rebecca si sente in dovere di svelare agli altri bambini la verità sulle fiabe. «Far sapere agli altri bambini che certe storie non erano come gliele raccontavano era una sorta di liberazione della verità, una ribellione dei piccoli contro il potere dei grandi». La verità ha un valore maggiore per i bambini rispetto agli adulti?
I bambini vogliono la verità, non vogliono che gli racconti bugie, vogliono capire cosa è vero e cosa finzione e non ti perdonano se li prendi in giro.
Dal pubblico si leva la voce della piccola Giada: «Come quando il mio papà mi fa vincere apposta». «E non va bene» – risponde Barbara – «perché vuol dire che vinci per finta.» E Giada ribatte: «Io preferisco perdere con dignità». E per l’ennesima volta un bambino lascia noi, pubblico di adulti, attoniti con la sua semplice verità.
I bambini che ascoltano le storie di Rebecca – continua Barbara Fiorio – si sentono trattati da grandi e a Rebecca piace essere l’artefice di questa conquista. Queste fiabe vere la metteranno però in aperto conflitto con le perfide bambine della “Gilda del cerchietto”, un gruppo di bullette, prime della classe, che difendono le principesse. Per Rebecca ci saranno momenti difficili. Meno male che, al suo fianco, c’è Daniele, il compagno di banco timido e introverso, che disegna draghi, al quale Rebecca apre la porta.
Sei docente di scrittura creativa: quali sono gli errori più frequenti che noti tra chi è alle prime armi e quali consigli ti sentiresti di dare a un aspirante scrittore?
Una piccola precisazione: leggo solo i testi degli allievi dei laboratori o dei miei corsi di scrittura. Un errore frequente che incontro nei loro scritti è la banalità. Molti sono convinti di scrivere la storia più originale, ma il più delle volte non è così. Non è tanto l’essere originali che conta, è il saper raccontare che fa la differenza. Un altro sbaglio comune è dare poca importanza alla scrittura, alla sintassi, alla grammatica e alla punteggiatura. La consecutio temporum è importante quanto in un’auto sono importanti le ruote. Nessuno pensa di essere uno scultore, ma uno scrittore possiamo esserlo tutti, perché basta una tastiera. Non è così. Spesso, poi, manca l’autocritica. Ho visto crescere nei laboratori coloro che si sono messi maggiormente in discussione. Chi accettava le critiche, ed era disposto a ragionare sugli errori con umiltà, ha fatto notevoli salti.
Hai da pochissimo iniziato il tour promozionale di Qualcosa di vero. Hai già in mente qualche altra idea per un nuovo romanzo?
Sono al settimo capitolo, ma sto girando per l’Italia come l’acqua nei tubi e sarò ferma nella stesura ancora per qualche mese, ma non posso svelarvi nulla. Non ci sono fiabe, non è fantascienza, però non posso dire altro. Nella mia testa il finale c’è, i personaggi ci sono, però li devo seguire e vedere dove andranno.
«Vi leggo un pezzo tratto dal mio romanzo», ci propone Barbara, «ma vi faccio scegliere» e la scelta del pubblico ricade sulla descrizione della perfida “Gilda del cerchietto”.
La nostra intervista si chiude con la fiabesca immagine di un drago, maestoso e bellissimo, che riempie tutto un foglio e non va mai in letargo. Guardo il draghetto che si staglia, fiero, sul nostro tavolino delle interviste e penso che anche Barbara, come Rebecca, ha il suo drago personale.