Quando due anni fa è uscito questo romanzo, L’Oceano in fondo al sentiero, mi ci sono avvicinata con grande curiosità per tre motivi: il primo è che Neil Gaiman è uno dei miei autori stranieri preferiti di sempre e ogni nuova uscita che porta la sua firma è per me sinonimo di un giro in giostra annunciato; il titolo stupendo; e il terzo nasceva dai commenti non proprio entusiastici della critica, che aveva accolto il nuovo lavoro dello scrittore inglese con diffidenza. L’opinione comune era che Gaiman fosse scoppiato come autore geniale, che la sua vena creativa si fosse esaurita ma che, nonostante tutto, caparbio, avesse tentato ugualmente di scrivere un romanzo dei suoi, ma non ci era proprio riuscito.

L'Oceano in fondo al sentieroCon queste contrastanti premesse nell’animo ho aperto il libro, incuriosita e timorosa di una delusione. E ricordo ancora oggi con divertimento lo sconcerto provato nelle prime trenta, quaranta pagine – che sono tante ai fini di un giudizio! – la storia sembrava dedicata a un target di bambini di prima media.

“Era solo uno stagno, ai margini della fattoria. Neanche tanto grande.
Lettie Hempstock diceva che era un oceano, ma io lo sapevo che non poteva essere. Diceva che attraversando l’oceano erano arrivati qui dalla loro vecchia terra. Sua madre diceva che Lettie ricordava male, che era stato tanto tempo fa e che comunque la vecchia terra era sprofondata.
Mrs Hempstock vecchia, la nonna di Lettie, diceva che si sbagliavano tutte e due, che il posto sprofondato non era la terra veramente vecchia. Diceva che lei se la ricordava, la terra veramente vecchia.
La terra veramente vecchia era saltata in aria, diceva.”

Quello che mi scorreva davanti agli occhi era un racconto soffice, di una ordinarietà anestetizzata, raccolto, tenuto a freno, liscio, imperturbabile. Una storiellina buttata lì, che raccontava la vita e le giornate di un ragazzino timido e sensibile alle prese con piccoli problemi quotidiani e una sorella antipatica.

Il linguaggio in genere già fruibile di Gaiman qui era ridotto all’osso, vestito di una semplicità disarmante. Ricordo che non osavo ammetterlo neppure a me stessa, che nascondevo la parola banale in un angolo del reparto “giudizi affrettati” della mia mente, odiandone la sostanza retriva e odiando me stessa per averlo pensato, eppure era così. E già lì a commentare: ecco vedi che avevano ragione, Gaiman si è bevuto il cervello… ma davvero?

Fortuna che non l’ho abbandonato. Fortuna che nonostante la delusione ho continuato a leggere altrimenti non avrei mai scoperto l’ultima perla sfoderata dalla penna del nostro Gaiman che, maturo di ormai qualche decennio di opera creativa a tutti i livelli, aveva previsto tutto e preparato per il lettore più audace una di quelle trappole visionarie di cui solo lui è capace.

Sì, perché a un certo punto, più o meno dopo il suicidio di uno dei personaggi secondari, c’è una buca e tu ci cadi dentro. Improvvisamente tutta la pacifica banalità della prima parte assume contorni così profondi e grotteschi che sei costretto ad alzare gli occhi ogni tanto, a interrompere la lettura – adesso divenuta implacabile, incalzante, molesta quasi – per accertarti che nulla si stia muovendo nella stanza, annidato nel buio o attaccato al soffitto. E scivoli in un tunnel favolistico crudele, perverso, tragico: precipiti dritto dritto nelle tue paure di bambino che – maledette – sono ancora tutte là, vive e sbavanti come le avevi lasciate, mai uccise, mai dissolte dalla luce, mai assopite nella vigorosa razionalità dell’età adulta.

Ci cadi. Io, proprio come la Alice di Carroll, sono precipitata nel buco e ci sono rimasta invischiata: ho sentito per la prima volta da adulta, sulla pelle, la voce terribile e metafisica del lato oscuro delle fiabe, un universo fatto di percezioni e brividi inspiegabili e spaventosi, perché è di questo che parla, L’Oceano in fondo al sentiero: delle paure infantili che crediamo di avere sciolto, dei terrori primigeni, gli incubi tumulati negli armadi di cui oggi ridiamo con gli amici non senza qualche refolo di dubbio che ci spicciamo a dissipare con un atteggiamento quasi canzonatorio. Certo. Peccato che quel mondo, quella stanza, quel corridoio, li abbiamo ancora tutti dentro e Gaiman, il maestro, ha saputo riesumarli, tirarceli fuori dalla fronte vivi e ancora terrifici come li ricordavamo…

A questo punto c’è da fare una precisazione: io mi reputo una lettrice “forte”. E coraggiosa del mio essere anche autrice di storie, sono solita approcciarmi alla lettura con spirito critico e indagatore, non posso farne a meno. Non di rado grazie a questo fiuto sono stata capace di intuire e indovinare i trucchi che questo o quell’autore ha messo in atto per stupirmi: quasi sempre, direi. Questo non mi è riuscito con L’Oceano in fondo al sentiero che, anzi, mi ha tratto in inganno con la magistrale trappola della ridondante semplicità. E dire che avrei potuto arrivarci se solo mi fossi fidata di quel sentore strisciante che mi pervadeva durante la lettura, quasi un monito, una carezza ambigua, un complimento animato da cattive intenzioni… e se memore del maligno incantesimo già vissuto in Coraline fossi stata all’erta, sì, lo avrei smascherato. Gli indizi c’erano tutti, ma si capisce quando ormai è troppo tardi e si scivola in una melma psichica, emotiva, nostalgica quasi insopportabile, almeno quanto era stato superfluo e cloroformizzato l’attacco della storia, così, fino all’ultimo capitolo, all’ultimo periodo, ultima parola.

Il finale è destabilizzante e confortante insieme, come se quel mago delle parole avesse voluto capitolare facendo rappacificare il bambino e l’adulto per mezzo di un compromesso che presuppone qualità intrinseche come la voglia di crederci ancora e il non avere dimenticato la paura che era anche sapersi meravigliare.

Ecco, io sono uscita da questo romanzo/scivolone con le lacrime agli occhi, conscia che la noia opprimente, quasi ossessiva delle prime quaranta pagine era il congruo prezzo da pagare se si voleva poi sdrucciolare nella pura meraviglia: una meraviglia spaventosa, fatta di stracci che prendono vita, di parole mai comprese del tutto, di cose sfuggenti, nascoste, sepolte negli angoli, che altri non è che il recupero di una memoria che pensavo perduta.

Ecco cos’è che fa Gaiman con questo romanzo, che reputo a tutti gli effetti ipnotico, non avendo ancora io capito quale tecnica abbia utilizzato per riuscire in una simile impresa: fa regredire chi legge allo stato mentale dell’infanzia. Giuro, lo fa.

Leggetelo. Perdete l’equilibrio. Meravigliatevi.

Titolo: L’Oceano in fondo al sentiero
Autore: Neil Gaiman
Traduttore: C. Prosperi
Editore: Mondadori
Pagine: 191
Prezzo: 17.50 €

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