Come se tutti fossero in lotta, e da qualche parte dovesse pur risultare. Questo è forse il senso del libro molto particolare di Livia Manera Sambuy pubblicato da Feltrinelli. La sua è letteratura sulla letteratura, perché quello che ha fatto è stato distillare nel tempo le impressioni che i tanti incontri con grandi della letteratura americana hanno suscitato in lei. Ma in fondo non è così semplice, perché così come l’oggetto del suo interesse non sono né soltanto i frutti letterari né solo le persone in sé, così l’oggetto del suo narrare è il riverbero che incontrare queste persone ha comportato nella sua vita.

“Scoprire una briciola di verità in una pagina, in un luogo o in una persona, qualcosa capace di meravigliarmi, ha per anni costituito un antidoto al rischio che la vita che amavo mi andasse troppo stretta.”

nonscriveredimeL’autrice scopre questo di se stessa, dopo aver incontrato e conosciuto – e non solo con la ragione, ma col cuore – Mavis Gallant, autrice canadese e maestra delle short stories, in voluto esilio a Parigi. Ma ogni incontro per lei costituisce un passo di comprensione di sé e del mondo.

Faccenda seria, dunque, sanguinante per così dire. La notorietà qui diventa una cosa diversa: questi autori, spesso vecchissimi, a volte poverissimi, a volte antipatici, ma sempre trasudanti un’umanità vissuta come sulle barricate, sono la dimostrazione che la scrittura è faccenda di vita o di morte, che scava trincee dolorose nell’anima, ma pure è l’unico modo di sopravvivere a un’esistenza troppo pesante da portare. E Livia Manera Sambuy non fa un collage casuale, ma coerentemente, e senza che risulti un’operazione semplice agli occhi del lettore, racconta come la sua vita sia stata segnata da questi incontri, e non come amore per il gossip ma con una ritrosia che è la stessa che questi autori americani, a cui la giornalista ha dedicato la sua carriera, usano per velare e svelare le ferite – aperte, sanguinanti, suppuranti, cicatrizzate – che sole generano la grandezza.

E in parte questo libro, che non è un reportage e non è un romanzo, tratta di come scrittura e vita debbano amalgamarsi per generare qualcosa che debba essere letto, qualcosa che non parli all’uomo nella sua superficiale ricerca di diletto, ma nella sua malattia, nella sua esacerbata ricerca di senso, pur sapendo che le storie di questi grandi a volte, o sempre, non sono risposte o balsami, ma spesso sale sulla ferita.

“In ogni soggetto c’è qualcosa da scoprire che riguarda anche te stesso. (…) Una parte di te fa di tutto per ostacolare questo percorso, combatte perché tu non dica delle cose, perché non scavi, perché non ti lasci sorprendere dalle cose terribili di te stessa che potresti scoprire lungo la via.”

Livia Manera Sambuy cita qui Judith Thurman, grande biografa, ma di fatto fa sua la lezione e assume su di sé il rischio che scoprire qualcosa su qualcuno dei personaggi di cui si assorbe e si descrive la vita sia anche un rischioso auto-disvelamento.

Il libro indugia in questi incontri, queste peregrinazioni che l’autrice ha compiuto in terra americana, e dovunque gli autori si nascondessero, in case a volte fatiscenti e odorose di morte, a volte in fast food esuberanti di vita, a volte in eleganti ristorantini, per incontrare persone strane e complicate, respingenti o semplici come bambini, persone che si sono suicidate e che sono morte in ricchezza o in povertà, ma che ogni volta hanno lasciato nell’intervistatrice un qualche apporto non superficiale, qualche svolta necessaria, qualche indicazione utile a ritrovarsi o a sapersi perdere.

Dice Richard Ford, vincitore fra gli altri, del Premio Pulitzer: “Il valore etico di un romanzo, per me che lo scrivo, è che contenga tutto ciò che nella vita ritengo importante”. Ora, per quanto sia vero, oggi come ieri, che la scala delle priorità può essere diversissima fra le persone, una frase come questa, se presa sul serio, potrebbe spazzare via davvero tanta della produzione libraria ipertrofica e inutile di oggi. Dunque potrei essere felice di aver letto questo libro inusuale anche solo per questa frase.

Bisogna aggiungere che, nonostante il mestiere del giornalista sappia di voyeurismo, l’autrice usa una ritrosia elegante nel parlare di queste persone, come di se stessa, e ciò contribuisce all’idea che la scrittura, quando è vera, non sia orpello ma una questione, appunto, di vita o di morte.

Un altro è il dato da riferire, e cioè che il meglio sarebbe stato, per me che recensisco questo libro, aver letto le opere degli autori di cui la Manera Sambuy racconta, ma in fondo esiste un libro migliore di quello che alla fine ti fa venire voglia di leggere ancora?

Autore: Livia Manera Sambuy
Titolo: Non scrivere di me
Editore: Feltrinelli
Pagine: 208
Prezzo: € 16,00 brossura
e-book: € 9,99
Data pubblicazione: Aprile 2015

2 Readers Commented

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  1. livia manera sambuy on 20 Luglio 2015

    Cara Antonella, che meravigliosa recensione hai regalato al mio libro. Sono onorata di tanta sensibilità e profondità e ti auguro tutto il successo che meriti.

    • Antonella Albano on 21 Luglio 2015

      Grazie a te Livia, il tuo libro mi ha ispirato moltissimo ed è bellissimo che tu abbia condiviso questa esperienza umana così preziosa.

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