Miyazaki: cantastorie per i piccoli, sensei per i grandi

Dopo l’Orso d’Oro e l’Oscar per Sen to Chihiro no Kamikakushi (La città incantata, 2001), la nomination all’Oscar per Hauru no ugoku shiro (Il castello errante di Howl, 2004) e il Leone d’Oro alla carriera nel 2005, il mondo occidentale ha spalancato gli occhi meravigliati sull’incredibile – per quantità, ma soprattutto per qualità – produzione di Hayao Miyazaki, poliedrico cineasta nipponico (regista, sceneggiatore, animatore e produttore) e insieme mangaka.

Come cercatori che hanno appena scoperto una pepita d’oro di dimensioni impensate prima, questi nuovi estimatori hanno esplorato e setacciato l’intera vena aurifera miyazakiana, speranzosi di scovare altrettanti tesori, e trovando quelli stessi che gli amanti dell’animazione giapponese già conoscevano (e veneravano) da anni, custodendone gelosamente le copie in lingua originale (solo in rari casi fortunati accessoriate da sottotitoli in inglese). Eppure, quanti tra i neofiti avevano già fatto esperienza del talento di Miyazaki senza saperlo, cresciuti facendo merenda davanti a capolavori meisaku (serie anime ispirate alla letteratura per ragazzi occidentale) di cui lui ha curato progetto e animazione, come Alps no shōjo Heidi (da Heidi di Johanna L. Spyri), Akage no Anne (Anna dai capelli rossi, dal romanzo di Lucy Maud Montgomery), Haha o Tazunete Sanzen-ri (Marco, dal racconto Dagli Appennini alle Ande in Cuore di De Amicis), o quello che già nel 1978 contiene la summa in nuce di tutti gli argomenti cari al regista e del suo stile, Mirai shonen Conan (Conan, il ragazzo del futuro, tratto da The incredibile tide di Alexander Key), che ha regia, sceneggiatura e storyboard firmate da lui.

La filmografia miyazakiana è immensa e quindi difficilmente esplorabile in un semplice articolo; è sufficiente dare una sbirciata alla lunga lista delle opere prodotte dallo Studio Ghibli, da lui fondato e diretto col compagno di sempre Isao Takahata, per scoprire che in ognuna (o quasi) ha avuto un ruolo determinante. Anche limitando l’indagine ai soli lungometraggi di cui è stato regista, ci si trova davanti a ben dieci piccoli inestimabili gioielli, talmente ricchi, stratificati, diversi tra loro eppure simili nello stile, nella poetica, nei contenuti più profondi, da meritare ciascuno un libro di approfondimento a sé. Questa straordinaria pluralità sfoggia storie delicate apparentemente per i più piccoli (come Il mio vicino Totoro e Ponyo sulla scogliera), altre impegnative destinate a un pubblico adulto (Nausicaä della Valle del Vento, Mononoke Hime, Porco Rosso, Laputa. Castello nel cielo) e altre che potremmo definire di emancipazione (La città incantata, Kiki’s delivery service, Il castello errante di Howl); realtà steampunk, post-apocalittiche, distopiche, fiabesche, storiche, alternative, quotidiane; paesaggi naturali rappresentati nella loro maestosità e ambienti antropizzati descritti nei dettagli, umani come alienanti; una schiera di personaggi indelebili, credibili, assolutamente tridimensionali; una sfilata di creature fantastiche originali, nate dall’immaginazione dell’autore, o rielaborate dalla tradizione shintoista o favolistica giapponese, o di natura meccanica e robotica: i kami della foresta e dei fiumi, i Totoro, i Makkuro-kurosuke, lo Shishigami, il Nekobasu, i Kodama, i robot-guardiani di Laputa e decine di altri.

La lucida visione del mondo e dell’uomo di Miyazaki e la sua capacità di darle forma attraverso le sue opere sono tali da renderlo un ottimo “rilettore”, profondo, acuto, autonomo, quando si tratta di riprodurre – nel suo caso, reinventare e reimprontare – storie scritte da altri. Chiunque legga The incredibile tide di Alexander Key, Howl’s moving castle di Diana Wynne Jones o Kiri no Muko no Fushigina Machi di Sachiko Kashiwaba – che hanno ispirato rispettivamente Conan, il ragazzo del futuro, Il castello errante di Howl e La città incantata – può rilevare come, nonostante si tratti di validissimi e originali libri, abbiano acquisito nella loro forma animata solidità, poesia, magia, profondità. Ma ancor più, il regista esprime la sua incisiva e penetrante poetica e la sua cifra spirituale (intesa in senso strettamente laico) nelle opere originali nate interamente dalla sua creatività; in particolare, nel post-apocalittico e quasi mistico Kaze no tani no Naushika (Nausicaa della Valle del Vento), nell’intenso e dal carattere fortemente ecologista Tenkū no Shiro Laputa (Laputa. Castello nel cielo) e, infine e soprattutto, in quello che forse può considerarsi il manifesto della concezione miyazakiana – forse perché realizzato con la convinzione sarebbe stato l’ultimo dal regista – e l’apice della sua creazione: Mononoke Hime (La principessa Mononoke). Prendendo come modello di riferimento questo meraviglioso e complesso film, è possibile tracciare le tappe di uno dei percorsi diegetici maggiormente frequentati dal regista, riscontrabile – anche se in forme e peso differenti – in tutte le sue opere.

Il tema portante di Mononoke Hime è il baratro che l’uomo con la sua ambizione e il suo desiderio di emancipazione ha creato tra se stesso e la Natura, allontanandosi così dalla dimensione sacrale della sua essenza e dalla condizione armoniosa della sua esistenza sulla Terra e declassando la Natura da divinità (si rammenti che la religione tradizionale del Giappone, lo Shinto, è una raffinata forma di animismo panteistico) a fonte di risorse da sfruttare. Ambientata nell’epoca Muromachi (1336-1573), la storia racconta i primi strappi che questo cammino verso l’autonomia e la laicizzazione ha provocato: gli uomini, rappresentati dalla Città del Ferro Tarabata, sono in guerra con i kami della foresta, verso i quali non provano più venerazione o rispetto, ma solo un vago ed egoistico timore. Particolare interessante è che solo gli esemplari più antichi, sia degli Inugami (dei cane) sia degli Inoshishigami (dei cinghiale), hanno la capacità di parlare la lingua degli umani e grosse dimensioni (per contenere grandi spiriti): lo strappo tra Natura e Umanità è tale che sono andate perdute le possibilità di comunicazione e sono stati demitizzati gli agenti del Sacro; come dice Okkotonushi, il signore dei cinghiali, essi diventano “sempre più piccoli e stupidi”.

Eppure, in quest’ottica che appare dichiaratamente ecologistica, Miyazaki non demonizza completamente l’atteggiamento dell’uomo: gli uomini della Città di Ferro, così come la loro padrona Lady Eboshi, sono parzialmente giustificati e più volte il regista pone l’accento sull’animo caritatevole di uno, generoso di un altro, collaborativo e volenteroso di tutti. Questo perché la visione etica miyazakiana rifugge ogni tipo di manicheismo: ogni scelta ha alle spalle una sua motivazione, che non è totalmente giusta o totalmente sbagliata, così come ogni personaggio buono non è privo di difetti e debolezze e ogni personaggio cattivo non lo è tout court (cioè ha le sue ragioni, spesso valide) e soprattutto non è destinato a esserlo per sempre.

Non c’è, dunque, alcuna vittoria auspicabile del Bene sul Male, nessun dualismo superabile, ma piuttosto una continua e viva dialettica la cui unica soluzione è rappresentata dalla comunicazione, dalla mediazione e dalla comprensione. Non a caso sono proprio la protagonista San e Ashitaka (nelle opere di Miyazaki le protagoniste sono tutte femminili, mentre i loro compagni sono relegati al ruolo di deuteragonisti), che per motivi differenti appartengono a entrambi i mondi – quello dei kami e quello umano – eppure a nessuno dei due, a compiere la missione di mediazione, a guardare i contendenti e gli eventi “con occhi non velati dall’odio”, e ad assistere alla reciproca distruzione delle parti, così come alla loro rinascita. Infatti, dopo la distruzione della Città di Ferro, Lady Eboshi promette ai suoi uomini superstiti che insieme ricostruiranno un buon villaggio; e nondimeno l’ultima parola spetta alla Natura, che sul terreno devastato, dove un tempo lussureggiava la foresta dello Shishigami, inizia subito a riconquistare i suoi spazi con nuovi germogli e mantenere viva, a dispetto dell’uomo, la sua sacralità: compare infatti inaspettato un piccolo kodama (i minuti spiriti degli alberi). La guerra, dunque, non è stata vinta e non è stata persa. E non potrà che riprendere a breve.

Rispetto per la Natura, Sacralità della Vita, antimilitarismo, comprensione della diversità, importanza della comunicazione, un’etica delle ragioni che non cristallizza azioni e cuori in rigide categorie. Tutto questo – e si tratta comunque solo di una selezione parziale e assolutamente ridotta dei temi, dei contenuti e degli intenti dell’opera miyazakiana – espresso in capolavori dell’animazione, che accostano a questa complessa profondità un’affascinante qualità estetica e tecnica e una fruibilità universale, grazie sia alla forma animata, sia alla narrazione sapientemente pedagogica del regista.

Converrà allora concludere affermando che Miyazaki, con la grandezza delle sue opere, ha saputo abbattere i muri di genere (quelli che confinavano l’animazione in una sorta di serie B della cinematografia), di cultura (quelli che rendevano i prodotti orientali pregiudizievolmente di difficile godibilità per gli occidentali), e di target (quelli che limitavano l’animazione ai bambini); tutti quelli, insomma, che avevano impedito per anni che i suoi lavori arrivassero dignitosamente in Occidente e che lui venisse riconosciuto per il regista che è: uno dei migliori da che il cinema ha mosso i primi passi.

I lungometraggi

1979 – Rupan Sansei. Kariosutoro no Shiro (Lupin III. Il castello di Cagliostro)
1984 – Kaze no Tani no Naushika (Nausicaa della Valle del Vento)
1986 – Tenkū no Shiro Laputa (Laputa. Castello nel cielo)
1988 – Tonari no Totoro (Il mio vicino Totoro)
1989 – Majo no Takkyubin(Kiki consegne a domicilio)
1992 – Kurenai no Buta (Porco rosso)
1997 – Mononoke Hime (Principessa Mononoke)
2001 – Sen to Chihiro no Kamikakushi (La città incantata)
2004 – Hauru no Ugoku Shiro (Il castello errante di Howl)
2008 – Gake no Ue no Ponyo (Ponyo sulla scogliera)
2013 – Kaze Tachinu (Si alza il vento)

Articolo originariamente pubblicato su Speechless Magazine, anno 2012, n°2

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