Per apprezzare questo libro inusuale sono necessarie alcune precondizioni: la prima è adorare tutto ciò che concerne il Dracula tradizionale, prendendo come canoni direi sacrali l’opera di Bram Stoker del 1897, che colorò di sangue le immaginazioni estenuate e decadenti di genti a cavallo di due secoli (e molto oltre), e il film di Francis Ford Coppola del 1982, che quel canone rinnovò di nuova vita, rimanendo indelebile nell’immaginario di una manciata abbondante di cinefili avvertiti. Seconda precondizione è non aborrire la poesia, concedersi il lusso di lasciarsene trasportare, deponendo le armi razionali della contemporaneità e i di lei oggetti.
Sostanzialmente leggere L’eredità di Dracula, di Davide Benincasa ed Eufemia Griffo, Edizioni della Sera, vuol dire partire per un viaggio che ha come meta quei posti scomodi e bellissimi che solo pochi vogliono visitare, infatti il percorso è irto di ostacoli e la vista finale, dal vertiginoso promontorio a cui faticosamente si arriva, è di quelle uniche e inusuali. Insomma, è roba per palati particolari. L’opera – perché non è un romanzo, ma nemmeno una normale raccolta di poesie – sembra nascere da una sorta di carteggio: come se i due autori, ritrovandosi nelle passioni comuni, appunto Dracula e la poesia, avessero cominciato a dialogare di volta in volta entrando nei ruoli dei personaggi del libro e del film.
“Nella finzione poetica, i personaggi si muovono su un palcoscenico immaginario, dove mettono a nudo i loro sentimenti, le loro paure, i loro desideri, le loro emozioni. Uno scenario fantastico, con il sottofondo sfumato di pianoforte, nel quale romanzo e film si fondono alle surreali e libere visioni degli autori. Un viaggio dentro l’anima di alcuni personaggi del famoso romanzo, indossandone i panni, per scoprirne l’essenza del pensiero.” (p. 9)
Questa l’ambiziosa visione degli autori. Altre due caratteristiche, o condizioni per l’intrapresa di questo viaggio, sono la necessità di ammettere la frequenza di termini e di ambientazioni e di suppellettili datate, nel senso di tarate sulle frequenze di certo corredo vittoriano, decadente, crepuscolare. Sostantivi come polvere, stelle, sangue, rose, morte, cuore, fiamma, spine, ventre, peccato, progenie; aggettivi come oscuro, antico, orribile, dannato, selvaggio… tutto questo, cari lettori, deve piacervi, dovete sentirne l’oscura (appunto) fascinazione. E infine è necessario accettare le regole che gli autori si sono autoimposti, cioè quelle dell’arte versificatoria giapponese: haiku, senryū, tanka, keiryū e altri schemi derivati. Davide Benincasa ed Eufemia Griffo aggiungono: “Le nostre poesie non seguono necessariamente la finalità, i canoni e le regole morali (corsivo loro) imposte dalla specifica tipologia di componimento, ma ne utilizzano soprattutto la struttura, la sillabazione fonetica e l’estetica”.
Accettate queste coordinate, che dire di quest’avventura allo stesso tempo consumata e nuova? Prima di rispondere alla domanda, però, vorrei spiegare i due termini: l’avventura è consumata perché immagini, pellicola, parole si sono sprecate e si sprecano ancora su questi sapori, profumi e colori sfumati fra il carminio e il grigio. Pizzi, merletti, tube, mantelli, corone, spade e crudeltà varie non cessano di venirci proposte da libri e da serie televisive, che spesso spaziano fra presente e passato e propongono vampiri in moltissime salse. Smettiamo di dire che i vampiri hanno stancato, perché in fondo non è vero: recenti serie televisive come Dracula e Penny Dreadful lo dimostrano, e parliamo solo di quelle ambientate in periodo vittoriano. Pizzi e crinoline, che siano o no screziati di sangue fresco, hanno sempre un appeal apparentemente immortale.
Perché invece l’operazione in questione sarebbe “nuova”? Perché gli autori di questo libro, dalla copertina allusivamente rossa e dall’immagine necessariamente color seppia, propongono non una semplice raccolta di poesie, ma un insieme di prosa e versi. Infatti ogni lirica viene intervallata da un brano in cui il rispettivo autore spiega la sua intenzione, parafrasa la poesia e offre indizi di collegamento a momenti del film o del libro, oppure decodifica i collegamenti fra una poesia e l’altra.
Non ci è dato sapere se questo è un intendimento nato sin dall’inizio, oppure se la necessità degli intermezzi in prosa è nata dall’opportunità rendere partecipe il lettore delle profondità del dialogo poetico, altrimenti inaccessibili ai più; inoltre il libro è privo di prefazione esterna che offra uno sguardo “terzo”. Il risultato appare un po’ strano, in verità. Sebbene infatti sembri esserci una certa libertà nella poesia contemporanea, l’insieme di prosa e versi richiama esempi del passato un po’ scomodi da ricordare: intendo il Dante della Vita Nova o del Convivio. Insomma lui era Dante ed era anche il primo a compiere questi esperimenti in volgare, da lui si può accettare che ci spieghi i suoi stessi versi. Ma rileviamo Benincasa e Griffo da questo precedente, pesante quanto un macigno; facciamolo se non altro per generosità, ed entriamo nel merito della loro operazione, tralasciando la sensazione di essere ammessi in un gioco dialogico intimo, come se il teatro delle parti fosse concepito per due e noi lettori stessimo sbirciando, con la benevolenza tollerante di Dracula e Mina Murray, attraverso la lente poetica di Benincasa e Griffo.
I temi sono peccato, morte, amore e poesia, in tutti i loro intrecci, e secondo l’ottica di volta in volta diversa dell’immedesimazione dei due autori. Sì, perché ciascuno a turno è Mina, è il Conte, è Reinfeld, è Lucy Westenra, è Van Helsing, è Jonathan Harker. Ciascuno di loro è protagonista e vittima della propria storia ed è poeta. La poesia infatti è qui eternatrice, proprio come nel senso di Foscolo, ed è dunque assimilata all’immortalità indotta dal vampirismo.
I versi ci parlano della maledizione del Conte, della sua rabbia verso il Destino che lo ha privato del riconoscimento secondo lui dovuto – Vlad III si sentiva il difensore della Chiesa cattolica anche mentre impalava migliaia di persone – e dell’amore della sua Elisabetha, personaggio che – ci ricordano gli autori – è del film e non del libro. La sua crudeltà, il suo non riconoscere i peccati compiuti sono però innervati dall’amore e dal rimpianto per la sua bianca principessa che rimane dannata pure lei, essendosi suicidata nell’imminenza dell’assedio. La sua vendetta diviene immortalità e sangue spillato dalle sue vittime, morte e degrado, diviene la lascivia triste e rapace delle sue tre spose che seducono e straziano Jonathan Harker prigioniero nel castello, mentre Dracula parte alla volta dell’Inghilterra, dove l’immagine di Mina, sovrapposta a quella della sua perduta Elisabetha, lo attrae inesorabilmente.
Non c’è azione nel libro: bensì una sorta di fermo immagine dei vari momenti, in cui l’anima dei personaggi diventa poesia, riflessione, sofferenza: parole insomma. Vivere e seguire il proprio destino diventa poetare, le immagini analogiche dei versi non compongono catene razionali, ma associazioni che risultano sia desuete sia nuove. Nelle liriche i personaggi si bloccano dove sono e si lasciano avvolgere da venti, petali, miasmi di morte, si lasciano ferire da spine e travolgere da ricordi. E questo è scrittura.
In questo libro c’è la celebrazione del formalismo che fissa in quadri dai colori spenti le svolte, le scelte. È come un collage letterario, che orna di pizzi, fiori secchi e rami morti un ampolla, invece di usarla. Alla fine della lirica gli elementi del decoupage si staccano, vorticano attorno e l’azione riprende, l’ampolla ritrova la sua funzione, portandoci alla scena successiva. Griffo e Benincasa nei commenti tratteggiano l’evoluzione dei personaggi, come il lieve cambiamento per cui alla fine il Conte Dracula pare riconoscere il suo peccato, pur acquiescendo all’inevitabile dannazione finale, mentre Mina Harker mantiene intatte la sua fede e la sua speranza, pur vorticando nelle spire dell’amore per il conte; più arduo è riconoscere questi passaggi nelle liriche che accatastano segni, sensazioni, emozioni, oggetti e sofferenze come in una catena elicoidale.
In definitiva è duro svolgere tutti i passaggi, e l’operazione di sapore petrarchesco di selezionare solo le parole adatte all’ambiente e al tempo scelto produce spesso una sensazione di inevitabile stucchevolezza. Nel recensire un’opera come questa, sarebbe certo opportuno offrire un giudizio stilisticamente avvertito sulla sua qualità poetica, ma vorrei esimermi invece da quest’obbligo, lasciando ai lettori piuttosto la scelta e la parola. Di seguito un frammento del dialogo lirico, attinto dall’ultima parte del libro.
(…)
Dolce il profumo –
muoio guardando l’Amore
che è dentro i tuoi occhi,
nel mare la tempesta
tra rose senza petali.
La mia promessa
non sarà rispettata
nessun abbraccio,
un abisso mi attende
mai ci rincontreremo.
Vie divergenti;
sulla riva del fiume
aspetterò,
la mia destinazione
andrà controcorrente.
Crepe nel viso,
il dolore degli anni
pesa nelle ossa
sangue tra le mie mani
squame sulla mia pelle.
Frasi confuse
tra le mie ultime parole
e una richiesta…
stringimi a te, più forte,
resta fino alla fine.
Con questi versi
componi una poesia
per dire Addio
e ora lasciami andare
mostrandomi l’Amore.
(Davide Benincasa)
Autori: Davide Benincasa, Eufemia Griffo
Titolo: L’eredità di Dracula. Liriche gotiche sull’amore oltre il tempo
Editore: Edizioni della sera
Pagine: 162
Prezzo: € 14,00 brossura
Data pubblicazione: maggio 2014
Collana: Externa
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