Ho letto tutti i libri dello scrittore danese Jussi Adler-Olsen, pubblicati in Italia con la casa editrice Marsilio, e sì, sono una sua fan. Ogni romanzo legato alla mitica Sezione Q, guidata dall’ispettore Carl Mørk, è stato recensito da me qui, su Diario di Pensieri Persi. Questa quinta avventura, però, mi ha lasciata un po’ perplessa, pur conservando tutti gli elementi di fascino della scrittura di questo autore danese, il cui aspetto – confesso – non posso non attribuire anche al suo peculiare ispettore.
Lo schema di questa serie thriller, attribuibile al genere del cosiddetto giallo nordico, è simile in tutti i romanzi: le vicende dell’ispettore e quelle dell’assassino, o della vittima, a seconda dei casi – in altri termini dell’altra linea di narrazione – rimangono separate fino quasi alla fine, quando si incontrano nello scioglimento conclusivo.
Il primo, La donna in gabbia, fu un pugno nello stomaco, e i romanzi che lo hanno seguito hanno confermato la tendenza dell’autore ad approfittare della storia gialla per toccare forti temi sociali, propri della società danese. Il/la protagonista della seconda linea narrativa è spesso un outsider, perché – che sia vittima o carnefice – è il risultante di una stortura della società, in modo tale che Adler-Olsen, e non Carl Mørk in effetti, si configura come un vendicatore, qualcuno che vuole raddrizzare torti, denunciare aberrazioni rese possibili da chiunque non voglia guardare bene, non voglia accorgersi del marcio – beh sì perdonate! – che c’è in Danimarca, ma anche in tutti i paesi cosiddetti civili. Lo Stato infatti spesso lascia scorrere via nella sua rete dalle maglie troppo larghe quei singoli individui che si ritrovano persi, senza aiuto e protezione, e a volte diventano vittime incolpevoli, a volte sociopatici o assassini seriali, oppure più semplicemente membri di quella parte della società disposta a schiacciare gli altri per il proprio tornaconto.
Nel caso de L’effetto farfalla colpisce che il protagonista sia Marco, un ragazzo appena quindicenne, che si crede uno zingaro, incaricato dal suo clan di rubare per le strade, e che però si scopre a desiderare una vita diversa. Qual è quindi il vero nemico? Non solo l’individuo che perseguita e minaccia la vita di Marco, il crudele Zola, ma il fenomeno sociale che inevitabilmente corrisponde: la possibilità che organizzazioni di individui senza scrupoli possano nascondersi nelle numerose zone d’ombra dove la legge non arriva e i diritti e la giustizia stessa vengono disattesi.
Adler-Olsen ha deciso di occuparsi degli zingari, ma non è esattamente così, a guardar bene. Sarebbe stato un autogol probabilmente, se fosse incorso in una tematica poco politically correct. Quindi no: Zola è invece un ex figlio dei fiori che ha raccolto sotto di sé, grazie al suo carisma naturale e alla proterva capacità di mantenere il controllo, un nutrito gruppo di persone che borseggiando, rubando e uccidendo gli garantiscono il suo impero personale.
Marco, il ragazzo che diventa pietra di inciampo, è una specie di 007 minorenne. Esperto ladro, ma capace di aver sviluppato dal niente senso morale e indipendenza di pensiero, fugge, cerca di vendicare gli innocenti e al fine di distruggere il potere di Zola. È una specie di genio, perché apprende anche se non è mai andato a scuola, anche se avrebbe voluto, anche se nessuno gli insegna; conosce tutti gli escamotage tipici delle spie per sfuggire agli agguati, appena può frequenta librerie e cerca di lavorare onestamente. Anzi, no: non “cerca”, piuttosto ci riesce in maniera egregia e si fa pure un bel gruzzolo. Questo fin quando non gli viene sguinzagliato contro un esercito di killer. A cui non solo riesce a sfuggire con la destrezza di Rocambole, ma a cui, degno erede di Harry Potter, alla fine si consegna in un eroico sacrificio di sé.
Calma, non vi sto dicendo come finisce, sto solo avanzando l’ipotesi che Marco come personaggio sia difficile da credere realistico. Ma magari mi sbaglio. Non posso escludere che l’autore si sia ispirato a qualche storia vera, eppure questo ragazzino che seguiamo per la maggior parte della storia sembra ben poco un ragazzino: è troppo perfetto. E questo non in generale, ma per le possibilità ambientali che gli sono state date in sorte, sia all’interno della finzione ideata da Adler-Olsen, sia in una possibile vita reale. Di certo rappresenta tutte le minoranze non protette, tutti coloro che vogliono una vita dignitosa e non sono in condizione di procurarsela, tutti coloro che come diritto naturale meriterebbero una possibilità di felicità. È evidente che l’autore, con piglio degno degli illuministi del Settecento, sta stigmatizzando questa società opulenta e pigra, che preferisce non vedere, non rischiare, non pagare di persona. In effetti, nella trama, due persone decidono di aiutare e ospitare Marco, ma la vita non arride loro, per così dire.
Che cosa ci vuole dire il caro Jussi? Che non è con la generosità dei singoli che si aiutano i reietti che cercano di sopravvivere nella nostra zona d’ombra, ma con un attento intervento dello Stato, auspicabile, necessario, vitale. E dunque la denuncia di tipo naturalista è garantita, e Giuseppe Parini e Emile Zola benedicono dall’alto. Certo, il protagonista ragazzino, con la naturale empatia che suscita, non è apprezzabile tanto dalla parte razionale di noi, quella che subisce il fascino del romanzo di denuncia, quanto dalla parte reattiva, che solidarizza col minore sperduto e incerto, ma deciso fino all’inverosimile, che sa tanto di libro Cuore.
Più convincente mi è apparsa la linea narrativa legata a Carl Mørck. Prima dicevo che è l’autore il giustiziere, non lui. Intendo che il capo della Sezione Q, abbandonato da Mona, la bella psicologa che aveva curato il suo PTSD, ricade in pieno nelle crisi di panico e passa la maggior parte del tempo a struggersi per amore. O a trasecolare per le intemperanze di Assad e di Rose, i suoi peculiari assistenti. Gli elementi narrativi legati ai segreti dell’enigmatico collega mediorientale trovano una pausa, mentre anche Hardy, il collega paraplegico, vede evolversi la propria situazione. La trama orizzontale della Sezione Q continua a essere intrigante e vincente, su questo non c’è dubbio, ma forse questo episodio non vede rivolgimenti sostanziali. Sarà il problema portato dalla necessità di tirare per le lunghe? Oppure la vena illuminista supera l’istanza narrativa pura?
Peraltro, il lavoro di documentazione per questo romanzo è stato notevole perché ha comportato anche il tema degli interventi nei paesi in via di sviluppo, complesso e delicato. Per quanto però si possa ritenere che questo episodio sia un passaggio necessario a quello in cui finalmente si scioglierà il nodo dell’identità di Assad, pure questa vicenda riesce meno incisiva e convincente rispetto alle altre. Forse le due linee narrative sono risultate troppo divergenti o forse la mole di ricerche e dati sui temi trattati – le enclave criminali ben incistate nei paesi cosiddetti civili e la mole di corruzione legata agli interventi nei paesi in via di sviluppo (come ancora ipocritamente vengono chiamati) – ha occupato un posto troppo rilevante nella concezione stessa del romanzo: fatto sta che l’impressione è che la situazione magari abbia preso un po’ la mano.
La lettura non risulta meno piacevole, perché lo stile è quello e i personaggi rimangono adorabili, ma si può forse augurare che Jussi Adler-Olsen ritorni all’unitarietà e alla vena fresca e incisiva che lo ha caratterizzato fin dall’inizio.