Il lieto fine è il cancro della letteratura. Non è un termine che usi con leggerezza. Il lieto fine, dopotutto, è quello che tutti vorremmo – quello per cui speriamo, aggrappati alle pagine come un naufrago allo scoglio, esigendo dalla letteratura quello che la vita troppo spesso non ci concede. Fa che si ritrovino. Che lui le dica che la ama. Che l’eroe sopravviva al suo viaggio. Che vivano per sempre felici e contenti. Là, chiaramente, nel più classico dei lieto fine, quello delle fiabe, si cela la prima menzogna: nessuno vive per sempre felice e contento. Prima o poi si muore. Ogni vita umana finisce in tragedia. Nessun lieto fine si garantisce, a meno che non avvenga un gioco di prestigio.
Fu a diciotto anni che per la prima volta mi accorsi dell’amarezza del lieto fine, della bugia che l’autore a volte stende, pietosamente, come un velo sull’orrore. Avevo appena finito Inuyasha, il capolavoro di Rumiko Takahashi, il lunghissimo manga che parla della ragazza mortale Kagome e del suo amore con il mezzo demone Inuyasha. La storia finisce lietamente: Kagome e Inuyasha si sposano e hanno figli. Ma mentre chiudevo il volume mi resi conto di una realtà raggelante: Inuyasha, un demone, è immortale. Kagome, un essere umano, no. Un giorno Kagome invecchierà e morirà, e Inuyasha, un demone la cui moralità viene conquistata solo grazie all’influenza benefica della donna che ama, rimarrà solo. Oltre la rassicurante vignetta dei due con i loro bambini si nasconde una storia terribile dell’eroe che rimane solo, impazzisce dal dolore e forse, chissà, ritorna al male. Ma l’autore ferma la propria penna in un luogo in cui può fingere che la morte, il dolore, l’orrore non esistano.
Questo, dunque, il primo tipo di lieto fine che lieto fine non è: quello in cui la gioia nasconde una infelicità facilmente intuibile. Un altro tipo di lieto fine posticcio, uno che appunto come un cancro rovina e divora la storia, è un lieto fine ancora più fasullo: perchè se il lieto fine di Inuyasha era condannato a essere effimero, quello di cui parlerò ora è un lieto fine che non potrebbe esistere. Un lieto fine veramente bugiardo.
Il caso più famoso è Harry Potter. Una delle serie cardine degli ultimi anni, lo standard su cui un intero genere letterario è stato costruito, Harry Potter giunge al settimo e ultimo libro con una storia la cui crudeltà e le cui perdite trasformano un bambino in un uomo segnato. Harry Potter è l’eroe di una guerra contro il male a cui sacrifica tutto: genitori, padrino, mentore, l’innocenza che era sopravvissuta anche all’abuso da parte degli zii, la sua civetta, il suo amico Dobby, la sua sanità mentale. Harry, un personaggio che vive con un frammento di puro male incastrato nell’anima, alla fine della serie e all’età di diciassette anni va scientemente incontro alla propria morte. Non è un trauma cui chiunque possa sopravvivere. E Harry non potrebbe. Ma la Rowling, generosamente, e orribilmente, glielo concede.
Alla fine della serie, Harry, un ragazzo che ha visto gente morire e ha ucciso, sta bene. Ha due figli. Una moglie. Nessun incubo. Tutto va bene, ci dice la Rowling, congedandosi, sorridendo perchè in una guerra che ha ucciso molti né Harry né i suoi migliori amici sono rimasti uccisi. È una menzogna, naturalmente. Harry non potrebbe, non dovrebbe poter sopravvivere senza conseguenze. Un protagonista che ha passato sette anni della sua infanzia e adolescenza a combattere, perdere, sacrificare, non può essere altro che un veterano.
La letteratura, va detto, lo sa. Ci basta paragonare Harry Potter a due protagonisti di serie del suo stesso genere: Frodo Baggins e Katniss Everdeen. I protagonisti della trilogia de Il Signore degli Anelli e di Hunger Games condividono con Harry la stessa storia: quella dell’eroe che sconfigge mostri. Ma Frodo e Katniss, realisticamente, ci ricordano che a volte l’abisso ci guarda. Katniss, come Harry, va alla guerra: a differenza di Harry, ne porta cicatrici vere e non finte come la famosa saetta. Alla fine della serie Katniss come Harry è sposata, ha figli: ha anche incubi, insicurezze e sensi di colpa. È un veterano.
Ancor peggio di lei, Frodo: che rimane da solo e lascia la Terra di Mezzo per l’Occidente, figura ispirata ai veterani distrutti dallo shellshock che Tolkien aveva conosciuto in guerra. “Abbiamo salvato questo mondo, Sam, ma non per me” è il congedo di Frodo, che ammette che combattere lascia segni e che questi segni non sono facili da portare.
Ma alla Rowling manca il coraggio che hanno Tolkien e Collins. Rowling costruisce un paradigma, fa scorrere la trama, ma alla fine si rifiuta di pagarne il prezzo. E anche se il bambino che è in noi è felice che Harry ce l’abbia fatta, illeso, il lettore esperto non può che riconoscere che un lieto fine del genere vale poco, pochissimo. La Rowling, e ogni scrittore come lei, non ha pagato il suo conto.
Ogni storia ha un’economia del dolore, un bilancio da mettere in pari in cui il finale paga il prezzo più alto. Un finale lieto non guadagnato stona, è fuori luogo: il falso in bilancio narrativo è tremendo. Tradisce la storia, e tradisce lo scrittore stesso. L’economia del dolore è una questione di coerenza. Viene stabilita da personaggi e trama, e cercare di truffarla manda tutto in bancarotta. Rowling stabilisce una soglia alta con una storia drammatica, un eroe pieno di dolore a cui tutto viene negato; poi fa dietrofront, risolve tutto, non uccide coloro che gli sono più vicini, e ci racconta che tutto questo dolore, tutto questo sangue, si può cancellare con un solo tratto della sua penna. Andava tutto bene, si conclude Harry Potter, e non è una promessa: è una minaccia. Perchè il sangue, con buona pace della Rowling, non va via.
Il sangue può essere vero o può essere metaforico. Le storie a lieto fine sono quasi un obbligo per il genere romantico, ed è qui che l’economia del dolore viene tradita più brutalmente. L’eroe romantico è spesso tenebroso; l’eroina drammatica. La trama è cupa, piena di colpi di scena: arrivare al lieto fine, a volte, è impossibile, o difficile. E difatti due delle storie d’amore più drammatiche e belle di tutti i tempi ci regalano un esempio classico di un’economia del dolore che va perfettamente in pari: Cime tempestose e Jane Eyre.
Nel primo la coerenza narrativa viene seguita con dolorosa fedeltà: gli amanti, Cathy e Heathcliff, sono esseri umani crudeli, egoisti, ignobili, redenti solo dal loro amore. Si rendono la vita un inferno e la rendono tale agli altri. Si amano con una ferocia che non è metaforica ma vera e sanguinosa, infliggono devastazione su quanti li circondano e fanno l’errore di amarli, e alla fine il loro destino è uno di morte. L’unico lieto fine per Cathy e Heathcliff è quello dei fantasmi che diventano, ombre sulla brughiera.
Jane Eyre e il suo amato, Edward Rochester, sono separati da molto: un dislivello sociale enorme e i crimini che lui ha commesso, e che voleva celare costringendo Jane a una vita di menzogne. Possono ritrovarsi solo alla fine, quando Jane ha affermato i suoi valori morali, è divenuta sua pari economicamente e soprattutto Rochester ha pagato per il male che ha fatto: nell’incendio in cui la moglie che aveva maltrattato è morta ha perso gran parte della sua fortuna e la vista tentando di salvarla. Rochester e Jane si sposano; ma solo quando il dolore e il dramma sono stati rimessi in pari.
Tuttavia è un prezzo che non tutti sono disposti a pagare. E può andare anche bene: si possono raccontare storie splendide in cui il dolore è poco e il lieto fine guadagnato. Orgoglio e pregiudizio, uno dei grandi classici della letteratura romantica, si regge su drammi da salotto facilmente risolvibili. Tom Jones è un romanzo epico e buffo, raccontato in tono leggero. Ma la tentazione dell’eroe oscuro, dell’eroina in lacrime è forte: ritroviamo questi eterni topoi nella letteratura più dozzinale, fino al tremendo Cinquanta sfumature di grigio. Christian Grey è un eroe traumatizzato e oscuro; il magico amore della protagonista lo rimette in sesto in seicento pagine. L’autrice e il suo pubblico si ingozzano del ricco sangue della storia di un eroe maltrattato, stuprato, sconvolto per poi metterci sopra la pezza pietosa del lieto fine scontato con figli. Tutti si meritano di meglio. Perfino uno stalker mal scritto come Christian Grey.
Essere scrittori è come essere Dio. Si può scegliere tutto, del nostro mondo di carta: bellezza e bruttezza, dolori e gioie. Ma nel momento in cui scegliamo la nostra libertà diventa un obbligo. Orologiai di creazioni da computer, dobbiamo al nostro mondo regole precise o rischiamo di tradirlo e tradirci. I personaggi hanno un destino. Un eroe che combatte è un eroe segnato. Un’eroina egoista e crudele non può diventare un gattino in tempo per essere una madre modello. Ogni dolore con cui costruiamo la trama, ogni crudeltà narrativa che infliggiamo, è un debito che dobbiamo pagare per guadagnarci la gioia del lieto fine. E a volte il conto è troppo alto, e l’unico modo per saldarlo è un finale amareggiato e senza gioia. L’eroe immortale e potentissimo vedrà la sua eroina morire, e l’eroina che ha combattuto, ucciso e vinto porterà per sempre le cicatrici. L’economia del dolore non demanda di meno.
Tolkien, un uomo i cui finali non peccavano quasi mai di eccessiva dolcezza, riconobbe il contrappasso preciso e la maledizione dei personaggi la cui storia è troppo interessante per il lieto fine in uno dei suoi pezzi più commoventi, purtroppo mai pubblicato, nei suoi libri più famosi. Ne Il dialogo di Finrod e Andreth, Tolkien ci racconta il finale di una delle sue storie più tragiche.
Aegnor, un principe immortale degli elfi, si innamora dell’umana Andreth. Sapendo che la perderà, che anche dopo la morte le anime degli elfi e degli uomini non possono incontrarsi, va in guerra e, disperato, muore. Nella sua vecchiaia solitaria, perseguitata dall’amore che ha perso e che non riesce a dimenticare, Andreth parla con Finrod, il fratello di Aegnor. Gli dice che lei non avrebbe costretto Aegnor a fare da bastone alla sua vecchiaia, se solo avesse potuto averlo nei brevi anni della sua gioventù. Ma Finrod sorride con tristezza. Il destino di creature immortali, risponde, è che non dimenticano mai. Aegnor non aveva orrore della sua vecchiaia, solo disperazione di fronte al dolore tremendo che perderla gli avrebbe inflitto. E quindi ha scelto la morte. E l’unica cosa che rimane, adesso, è la speranza che mentre le anime degli uomini vagano oltre il mondo, e gli elfi vi sono legati, dopo la fine del mondo possano ritrovarsi. “Passerà molto tempo,” dice Finrod, egli stesso perseguitato dal dolore di Andreth che sta per spegnersi, “ma aspettaci, me e mio fratello: nell’eternità al di là di ogni cosa, alla fine del mondo.”
L’economia del dolore sa essere crudele. Ma coloro che la accettano non mancano mai di grazia.
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Join discussionGiustamente si ammette che, per far felice il bambino in noi, Harry Potter non poteva avere un finale meno felice. E di certo il lieto fine è per definizione provvisorio stante la prospettiva mortale del protagonisti. Per credere e sopratutto per scrivere un lieto fine senza ombre occorre dimenticarsi della morte, della vita vera, di quanto costino il sangue, i tradimenti, le invidie. Non a caso scrivere – tanto più roba di genere commerciale, storie d’evasione – richiede la famosa “regressione al servizio dell’io”, un gestito e consapevole ritorno all’infanzia. Nella psicologia del lettore regredito del resto una spannung costosa e dolorosa è ritenuta essenziale a controbilanciare un finale radioso in un’economia del dolore del tutto opposta a quella richiesta dalla Petrizzo per la quale una vittoria che sia costata troppe lacrime e sangue non può comunque essere più lieta che tanto. Nella vita infatti raggiunti i nostri traguardi ci si volta indietro e si è condotti a chiederci “ma ne valeva la pena”? Assai spesso la risposta è no. Per questo nel romanzo l’eroe positivo ha traguardi che trascendono se stesso, alti ideali che comunque valgono anche il più oneroso sacrificio. È vero in questo quadro il romance presenta rischi specifici ove le finalità della protagonista sono solo ed esclusivamente il riscatto da una condizione iniziale di incompetenza sociale. Dinanzi al coronamento di un sogno d’amore, aver troppo sofferto può non valere la pena… Curiosa però la risposta della lettrice romance: dinnanzi a eroine disposte a martirizzare pur di conseguire il lieto fine, tendono ad assolutizzare il bene d’amore, a espanderlo di conseguenza a misura di quanto l’eroina abbia specularmente sofferto. Nemmeno la Meyer ha avuto il coraggio di arrivare a tanto e sul piatto del dare e dell’avere alla fine, ha aggiunto al buon Edward un tot di immortalità e un fisico da paura. (Monica Montanari)
Sarei stata d’accordo con lei se non si fosse contraddetta. All’inizio ha detto che il lieto fine è il cancro della letteratura (sottintendendo che lo è sempre, e fra l’altro aggiungendo una tirata venuta dalla sua esperienza personale su come i lieto fine siano sempre bugie), e poi si è contraddetta nei termini tirando fuori esempi di lieto fine con delle perdite, che rimangono sempre e comunque dei lieto fine, per finire imponendo la condizione di pareggiare il dolore con la felicità, che ha perfettamente senso e sono d’accordo. Da un punto di vista logico e pure di fatto però la premessa stessa dell’articolo è fallace, perché non tutte le morti sono tragiche, non tutte le morti sono dolorose, e non tutte le morti sono una “cosa brutta”. Per Socrate la morte era liberazione. C’è chi non cerca attivamente il suicidio ma desidera la morte comunque. C’è chi vede la morte con assoluta serenità, senza averne paura e senza associarla ad un valore negativo. Per alcuni la morte è la scelta più dignitosa, per altri è l’unica scelta che hanno, per altri ancora è una fonte di onore e di immortalità. Quindi non tutte le storie a lieto fine sono necessariamente storie in cui il protagonista vive per sempre felice e contento, e quindi non sempre il lieto fine è irrealistico o una bugia.
Vorrei aggiungere un’altra considerazione: avere una famiglia e crescere dei figli è esattamente il lieto fine che immaginiamo, con la dissolvenza di lui e lei che si baciano? Ma proprio no. Infatti la scena finale di Harry Potter può apparire lieta, ma non lo è del tutto. Harry e la moglie accompagnano il figlio al treno per Hogwarts. E’ vero che non è più un ambiente nel quale possa manifestarsi Voldemort, ma non è affatto un ambiente lieto e sicuro. Un genitore che accompagna un figlio alla soglia dell’adolescenza non sta sicuro e tranquillo manco per niente! Lo sta accompagnando all’ignoto, a probabili sofferenze, a disagi e a incertezze. Sì, il ragazzino è amato, ma questo non lo risparmia dalle stesse sfide che Harry e i suoi amici hanno affrontato – a parte Voldemort. Non so, un professore che probabilmente ti odia e ti vuole danneggiare (o magari invece ti protegge fedelmente e tu sei troppo giovane e inesperto della vita per accorgertene). E fin qui parlamo dei ragazzi, ma cosa provano i genitori dei ragazzi che li sanno lontani ad affrontare la vita? Insieme all’orgoglio e al sorriso per i tuoi pargoli, c’è un’inquietudine che non ti togli mai. Questo non è affatto un lieto fine standard, quello in cui la dissolvenza di rito ti risparmia dall’immaginare il dopo: questo somiglia parecchio alla vita. Basta avere figli per rendersene conto. Povero Harry Potter!
In più potrebbe essere utile ricordare la natura teologica del lieto fine di Tolkien. Per lui la felicità che corrisponde con la salvezza del mondo e della Contea, col matrimonio fecondo per il mondo tutto di re Aragorn con l’elfa amata, comporta sì la partenza di Frodo, ma l’allontanamento e la soglia oltrepassata con serenità sono possibili e dolci-amari perché il lieto fine è in Dio, è da un’altra parte. Per Tolkien il lieto fine è possibile perché il Cristo ne ha attuato uno col suo sacrificio: qui in trasparenza c’è la Resurrezione e la possibilità che, oltre la soglia, l’uomo, tutti gli uomini vi partecipano. Tutti i lieti fini del fantasy si avvicinano a quello del maestro, ma senza la certezza di Tolkien non possono partecipare del suo, per buona pace della scristianizzazione corrente. Se non possiamo davvero immaginare un lieto fine senza mentirci è perché non abbiamo la semplice fede e speranza di Tolkien.