Avete mai provato la sensazione incongrua ed estraniante di capitare in un luogo carico di storia, e pur trovandovi circondati da oggetti immoti, statue o inanimate architetture, sentirvi spiati da mille occhi invisibili, interpellati da muti segnali? Bene. Siete appena entrati nel Labirinto; e come ogni volta, non ne uscirete tanto facilmente.
Con questo post vorremmo inaugurare una nuova rubrica dedicata a voi, appassionati di narrativa fantasy e, di conseguenza, amanti del Medioevo. Non credevate di esserlo? In realtà è scontato, un’equazione assolutamente lineare: le saghe moderne, infatti, traboccano di storia medievale; e quando, come in Twilight, i protagonisti non portano la spada e non vivono in turriti castelli, sono comunque medievali dentro. Difficile immaginare un cavaliere senza macchia e senza paura ancora più eroico dell’irresistibile Edward Cullen…
Cos’è che ci piace tanto, nell’universo fantasy? Cosa scatena in noi una seduzione così intensa che ci catapulta letteralmente attraverso il libro fino a che non sfogliamo l’ultima pagina? (Evidente lapsus freudiano: la catapulta è una macchina da guerra medievale…) Con l’antropologo Victor Turner, potremmo chiamarla la “foresta dei simboli”. È una folla di cose intimamente connesse all’interiorità umana, che ci inviano i loro messaggi positivi oppure angoscianti nostro malgrado, perché la parte razionale di noi non li trattiene né si sofferma a elaborarli. Segnali provenienti da un passato remotissimo, ma tuttavia parte integrante della nostra storia privata, perché li abbiamo assorbiti giorno dopo giorno. Millenni prima di noi, gli uomini hanno imparato a difendersi dai pericoli di una natura ostile come pure a goderne i doni secondo precise modalità; a scambiarsi profferte d’amore e di piacere, minacce, sfide di forza fisica e di bravura intellettuale. Ogni volta, questo accadeva per mezzo di un codice trasmesso di generazione in generazione senza bisogno di nessuna scuola, con l’esempio pratico: in molte situazioni, infatti, le civiltà antiche giudicavano la parola come superflua, nociva, persino dissacrante.
E così, ci ritroviamo arricchiti da una sapienza che non abbiamo sudato, ma ricevuto in eredità; e siamo perfettamente in grado di inorridire, spaventarci o fremere d’orgoglio guerresco mentre leggiamo un buon libro fantasy, anche se non abbiamo mai cavalcato a pelo un feroce destriero da guerra contro le orde barbariche, e anche se, per nostra fortuna, non ci capiterà d’incontrare un orco. Qualcun altro, nelle generazioni che ci hanno preceduto, ha raccolto simili esperienze per noi, lasciandoci quale patrimonio le chiavi segrete per decifrarle.
Scettici? Ne avete ogni diritto. Allora, un piccolo test. Immaginate di entrare in una stanza dipinta di un bel verde luminoso o di un celeste chiaro. Vi sembra rassicurante, e sapete perché? Semplice: il verde è un colore “elfico”, ovvero buono, positivo, spirituale e, almeno in parte, divino. Come l’azzurro, del resto. Questione di codici ancestrali. L’azzurro rimanda al cielo sereno della buona stagione; il verde è lo spazio dei prati in primavera e in estate, ma anche quello di foreste basse, dove non è arduo trovare cibo senza correre troppi rischi. È il colore delle gemme nuove che spuntano sugli arbusti, della rinascita, dei campi ben coltivati, forieri di abbondanza e di prosperità. Da cui, fra l’altro, il significato di speranza passato nella cultura cristiana.
Non ancora convinti? Allora andate al cinema, e seguite lo spot iniziale della casa produttrice Universal, dove si vede il globo terrestre che sorge dal buio nulla come fosse la prima alba dell’universo. Di sottofondo, c’è una musica che vi scatenerà dentro un senso di tensione esaltante; benché sprofondati su una comoda poltrona, per qualche istante vi sentirete pronti a grandi cose. Sapete perché? La voce dominante è quella del tamburo, il ritmo segue le cadenze che si potevano suonare nell’imminenza di una battaglia. Permane dentro di voi un antico guerriero preparato alla lotta, consapevole dei codici che erano parte del suo mondo. Giace silente nel vostro passato più remoto, ma in qualche modo, ha trovato la via per farvi giungere una parte della sua esperienza. Come biasimarlo, del resto, se voi siete la sua amata discendenza, ciò che l’uomo del passato riteneva il bene supremo? Ricorderete, spero, l’ansia del nobile Goffredo de Montmirail affiancato dal suo marpionissimo ma fedele servo Jean Cojon, scaraventati addirittura mille anni dopo, pur di dare al nobile lignaggio la speranza di una continuazione (I visitatori, con Jean Reno e Christian Clavier, regia di Jean-Marie Poiré).
Non ci si addentra mai in un Labirinto senza aver prima agguantato una buona mappa per orientarsi; ma dove scovare la magica carta di cui abbiamo bisogno? Siamo fortunati: qualcuno ha voluto creare per noi una specie di summa del mondo medievale, un enorme compendio di simboli che sembra fatto apposta per le nostre esigenze. Uno scrigno di codici ben descritti, ordinatamente enumerati. Pensate delusi a un voluminoso manuale di storia? Macché: io vorrei darvi un romanzo! È Il nome della rosa (Umberto Eco, 1981), uno dei testi più densi, belli e complessi mai scritti su questa epoca fascinosa. Uscito per giunta dalla penna di un professore di semiotica, uno insomma che di simboli se ne intende. Qualcuno forse storcerà di nuovo il naso, obietterà che Il nome della rosa è appunto complicato, difficile da leggere come un saggio ponderoso…
Keep calm. Avete un interprete; a che vi serve, lo storico, altrimenti? Il geniale autore (birichino!) ha messo insieme un’intricata foresta di simboli che lascia solo intuire ai lettori, senza spiegarli, perché possano esercitare il loro fascino arcano rimanendo inafferrabili; in breve, si diverte a usare un linguaggio ermetico, proprio come facevano gli alchimisti del Medioevo. E se ci fossero dei curiosi che invece vogliono vederli rivelati, questi simboli nascosti? Noi ci proveremo, con le nostre risorse. Cercheremo di scoprire quanta parte di antiche saghe nordiche e di storia autentica si può inaspettatamente incontrare nel genere fantasy di alto livello. Il Signore degli Anelli è citato dal medievista Franco Cardini, massimo esperto italiano di storia della cavalleria, in un suo fondamentale studio sul tema. Ovvio: Tolkien ha disegnato i suoi personaggi su quelli autentici dell’epos nordeuropeo: usi, costumi, cultura, e soprattutto, modo di pensare. Che ne dite? Si vede la potenza di un realismo inimitabile, no?
Se ne avrete occasione, lasciate che le vostre dita sfiorino l’acciaio di una spada del secolo XII, poi magari andate a Gubbio, e chiedete a un artigiano armaiolo di farvene toccare una moderna; avrete la cifra esatta della distanza che intercorre fra certi capolavori e ciò che vorrei semplicemente definire altro. Sorpresi? Volete un esempio concreto? Ammetterete che frate Berengario ha un’impressionante somiglianza psicologica e in parte anche fisica con Smeagol, mentre Gandalf il Grigio con accanto il suo giovane amico Frodo richiama per molti aspetti frate Guglielmo da Baskerville e il suo mite, ingenuo, pacifico novizio Adso da Melk.
Ci siete, dunque, cacciatori di arcani segnacoli? Allora, battete un colpo! Senza nessuna pretesa di completezza, ci addentreremo in una passeggiata lungo i sentieri dell’immaginario medievale, per cercare di scrutare il mondo visto con gli occhi di allora. E dopo questo viaggio, il nostro forse vi sembrerà un poco migliore.
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