E saltellando così di tomba in tomba,
vidi una bionda, mamma mia che bionda!,
era il fantasma della zia Gioconda,
che ripuliva la sua tomba nera e fonda.
Me la sono ritrovata davanti a pagina 40: è una canzoncina che avevo sepolto nella memoria e che non so più quale parente mi cantava decenni fa. La cita Ginevra Lamberti nel suo La questione più che altro e, dopo un opportuno momento di commozione, ho pensato che in effetti non c’era da stupirsi: Ginevra e io siamo nate e vissute nello stesso territorio fra laguna e Pedemontana e, pur avendo età diverse e non conoscendoci, abbiamo evidentemente attinto a uno stesso bacino di storie, impressioni e umori.
Non è comunque necessario che condividiate i natali della sua autrice per apprezzare questo romanzo: uno dei suoi molti pregi è infatti la capacità di delineare il ritratto credibile di una generazione andando oltre i riferimenti concreti. La valle della provincia di Treviso in cui vive Gaia, la protagonista, è unica eppure uguale a centomila altre valli o piane solitarie dove non accade mai niente. L’appartamento condiviso di Mestre (non più “Venezia Mestre” ma “Mestre e basta”) nel quale si trasferisce potrebbe trovarsi ugualmente a Sesto San Giovanni, Salerno, Brindisi o Parma, come pure il corredo di coinquilini variamente spostati che si tira dietro. Persino le peculiarità dell’alloggio di Venezia, che si trova “sopra a un’osteria veneziana gestita da pakistani, il che significa che il bagno è più o meno sempre naturalmente deodorato all’aroma di patate arrosto/soffritto/cavolo bollito/bistecca” sfumano in un clima di agio-disagio come solo i luoghi di passaggio sanno dare, nel quale chiunque può riconoscersi.
Gaia ha 27 anni, non è più una ragazzina ma per cause di forza maggiore non riesce a sentirsi adulta. Nella sua vita ci sono un genitore e una genitrice, dei gatti, ci sono l’amica cosmonauta e quella ispano-italiana, Norman col quale discute del senso della vita e Rudi, gran bestemmiatore ed elaboratore di complesse teorie sul (quasi) tutto. Ci sono altresì personaggi emblematici come la sacerdotessa delle cocorite, cui Gaia dedica poemi acrostici popolati di carlini, iguane e trote nane. Studia lingue eurasiatiche e sta scrivendo una tesi che, “per passare dalla potenza all’atto, prevede un certo numero di traduzioni dal tagiko all’italiano”. Al fausto giorno della laurea arriva quasi per caso, in pieno carnevale, “onde evitare che a qualcuno potesse venire il sospetto che si trattasse di un affare serio”.
Il titolo di dottoressa non cambia di molto la sua esistenza, divisa tra attacchi di panico, sogni popolati da nonni più o meno defunti, uscite con le amiche, visite al pronto soccorso per sé o il padre e lavori saltuari, tutti ugualmente tristi (e Lamberti, che in un call-center lavora davvero, ne offre un’immagine desolante che regge bene il confronto con i classici del genere) che però la portano a fare considerazioni di ordine filosofico: “C’è un innegabile pregio nella precarietà, ovvero fare periodi brevi di lavoro ti permette di avere tante ultime settimane di scuola, con quella sensazione liberatoria di confidenza con l’ambiente che poi ti porti dietro l’impressione di esserti affezionato a cose e posti a cui in verità non ti potresti affezionare neanche in un milione di anni.”
A essere proprio sinceri non accade chissà che nel romanzo, a parte la vita. Gaia ne fa un resoconto ondivago, raccontando con una lingua all’apparenza apatica, dalla punteggiatura creativa, popolata di frasi ricorrenti – “la questione più che altro” del titolo, la formula “oggi mi sono alzata dal letto e” – che avvolge riga dopo riga il lettore in un bozzolo di morbida foschia per poi infilzarlo a sorpresa con lunghi spilli.
Lamberti padroneggia bene la sua voce narrativa, modulandola per passare dall’ironia feroce al disincanto alla commozione. I suoi incisi linguistici dimostrano curiosità genuina e tenero amore per l’italiano bistrattato di chi parla male e pensa male (Nanni Moretti docet: “La Psicologa commenta extra cuffia che si sente che è zitella, il Vincente precisa che presumibilmente ha voglia di uccello, qualcuno di passaggio puntualizza spero che fallisci e muori di fame. Io penso spero che morite, soli e senza neanche il conforto di un congiuntivo”) e per le parlate dialettali, come le espressioni del genitore di origini meridionali (è figlio dei “nonni di giù”) e le peculiarità dell’idioma veneziano: “‘more è una parola che si pronuncia con la erre retroflessa, il che da un punto di vista linguistico mi ha sempre affascinata perché, da quanto ne so (poco), la erre retroflessa è propria di indiani, bengalesi, albanesi, veneziani, mestrini e Manuel Agnelli.”
Leggetelo: sghignazzerete, sospirerete, vi farà male da qualche parte fra il fegato e il cuore, e scoprirete di più su quella generazione “meh” che cerca senza troppa fiducia, ma cerca comunque, di caricarsi sulle spalle l’eredità di un mondo che non ama granché ma, ehi, è l’unico che c’è e poi, disgraziatamente, dura troppo poco.
Autore: Ginevra Lamberti
Titolo: La questione più che altro
Casa editrice: Nottetempo
Pagine: 203
Prezzo: € 13,00 copertina flessibile; € 7,49 e-book
Data pubblicazione: 17 settembre 2015