La battuta presa da una vecchia puntata del David Letterman Show, quando gli venne chiesto cosa avrebbe voluto veder scritto sulla propria lapide, sta facendo il giro del mondo virtuale. Alla domanda del conduttore aveva risposto con un aneddoto: la frase che gli sarebbe piaciuta era quella trovata su un foglietto della tintoria, spillato a una giacca di pelle devastata da tempo e usura, imbrattata da figli presi in braccio, macchie di birra. Uno di quei capi però ai quali ci si affeziona talmente tanto da continuare ad indossarli, incuranti dello stato indecoroso.

Siamo desolati di restituirvi un lavoro imperfetto: la frase, nella versione da me tradotta, suonava così.

Ironico, beffardo direi, la perenne sigaretta tra le dita o pendente dalle labbra perfettamente disegnate. Accattivante ma beffardo, irritante ma raffinato, i lineamenti perfetti, quando anche col passare del tempo segnati da mille rughe, tanto che il suo aspetto giovanile aveva ispirato al bravissimo disegnatore Magnus il personaggio di Alan Ford, dell’omonimo fumetto nato nel 1969, affascinante ma imbranato, a differenza del suo illustre modello.

Capelli biondi e occhi azzurri, di rigore, anche se forse non tutti sanno che, formula di rito, quegli occhiali da vista dalla montatura nera e spessa tipicamente anni ’60 non erano solo un accessorio che donava al suo look, bensì uno strumento necessario; perché quei bellissimi occhi erano stati sottoposti più volte a operazioni chirurgiche.

Stiamo parlando di Peter O’Toole, scomparso pochi giorni fa. Tralasciando disquisizioni sul suo film più conosciuto, Lawrence d’Arabia (1962), e a testimonianza della teoria secondo la quale i grandi attori sanno cimentarsi in qualsiasi ruolo, comico o drammatico che sia, sanno di cinema e di teatro , e che sia da protagonista che partecipando con un cameo a un film, la stoffa emerge, vorrei ricordare qualche pellicola meno sperequata. Film dove il nostro ha dato modo di dimostrare che lui, grande, lo era veramente.

Becket e il suo Re (1964), per iniziare: una storia di potere ma soprattutto di un forte legame (seppur dal potere spezzato e rinnegato dolorosamente) tra l’arcivescovo di Canterbury e re Enrico II. Co-protagonista Richard Burton, collega ma soprattutto amico e compagno di colossali bevute e scorribande nella vita privata di O’Toole. I due, di fatto, componevano con un terzo famosissimo attore, Richard Harris, una triade di scapestrati fin dai tempi delle loro performance scespiriane all’Old Vic. Harris stesso, era versatile al punto di essere il primo Albus Silente della saga di Harry Potter, prima della sua dipartita, dopo una carriera professionale che lo aveva visto attraversare palcoscenico e grande schermo, interpretando opere del Bardo e pellicole cult del tipo Un uomo chiamato cavallo. Gustosissime su YouTube le interviste rilasciate da Harris e O’Toole, separatamente, sempre durante famosi talk show, quando parlavano l’uno dell’altro: convivenze e rientri all’alba ubriachi fradici con relativa apertura di frigoriferi desolatamente vuoti, un gatto o un cane, non ricordo bene, volato fuori dalla finestra. E ancora ragazzate: entrate in scena – spesso, tanto per cambiare, rigorosamente alticci – per interpretare tragedie di Shakespeare, con relativi contrattempi di mantelli impigliati tra le quinte, scatenando disappunto e/o scambi di battute tra il pubblico, del tipo Toh! Guarda, Harris è completamente ubriaco! e il vicino risponde Vogliamo parlare di O’Toole? (sto citando approssimativamente, a braccio, voglio specificarlo). Siparietti esilaranti che ricordano i due vecchietti a teatro del Muppets Show.

Queste smodatezze, al nostro, costarono quasi la vita, tanto da dover smettere di bere dopo essere stato salvato in extremis, il fisico minato dall’alcool, ed era ancora giovanissimo. Eppure, anche nella tragedia dell’eventuale epilogo al quale il bere lo stava conducendo, sempre durante un’ intervista, sbuca fuori il tipico umorismo inglese, anzi il suo personale: raccontando di una sorvolata rocambolesca su un fiume, river, in inglese, pronuncia invece la parola liver, che in italiano significa fegato, e subito si ferma, ammicca al conduttore dicendo che è un lapsus freudiano! Certo, lui il fegato se lo era quasi giocato, a suon di bevute. E vogliamo parlare della sua interpretazione ne La notte dei generali (1966)? La trama: un’indagine perpetuata per anni su un generale nazista più giovane in carica del comando tedesco, ambientata durante l’occupazione di Varsavia del 1942, a seguito dell’uccisione di una prostituta. O’Toole riesce a tratteggiare mirabilmente il personaggio di un serial killer psicopatico che colpisce nel tempo ma alla fine, nonostante guerre e tempo siano passati, viene incastrato dall’ufficiale che seguiva l’indagine fin dal primo delitto (un altro suo amico nella vita, l’interprete, vale a dire Omar Sharif, che con lui aveva recitato anche in Lawrence d’Arabia).

Una maschera agghiacciante, quella del generale Tanz, come agghiacciante, anche se in chiave satirica nei confronti della nobiltà inglese e non solo delittuosa, quella di Lord Garney, personaggio interpretato da Peter O’ Toole in La classe dirigente (1972).

Rampollo della nobiltà inglese, si crede Gesù, esce dal manicomio, eredita il titolo e compie un delitto riuscendo a incolpare il maggiordomo. Citerei ancora un altro film più leggero, il “musicarello” inglese per eccellenza Ciao Pussycat (1965), un film leggero dove O’Toole, nello splendore del suo aspetto giovanile, è circondato e ossessionato da altrettante bellezze giovanili, tanto da rivolgersi a un improbabile psicoanalista, interpretato da un altro grande Peter del cinema: Peter Sellers. Esilarante la scena in cui confessa al suo interlocutore – decisamente non alla sua altezza dal punto di vista estetico – che il suo problema è sostanzialmente quello avere intorno troppe donne.

La lista di film è lunga, attraversa tempo e alterna generi cinematografici: passando per la commedia deliziosa Come rubare un milione di dollari e vivere felici (1966), accanto a una altrettanto deliziosa Audrey Hepburn, fino ad arrivare, per dirne uno, alla sua toccante interpretazione di re Priamo nel colossal Troy, (2004), forte di esperienze di film storici e in costume (Caligola e Masada, rispettivamente del 1979 e 1981).

E ora, pochi giorni fa, il leone si è addormentato d’inverno.

Anche per il titolo di questo che non saprei definire se non l’omaggio di una persona che lo apprezzava come artista (utilizzo un termine desueto, una volta erano gli anziani a chiamare artisti invece che star gli attori) ho modificato quello di un altro suo capolavoro Il leone d’inverno (1968), a fianco di una strepitosa Katherine Hepburn, di attori del calibro di Anthony Hopkins e di un giovanissimo Timothy Dalton, noto ai più per la sua prestanza e per aver interpretato qualche James Bond e non per la sua militanza nella Royal Shakespeare Company.

In questo film O’Toole torna a rivestire i panni di re Enrico II Plantageneto, come aveva già fatto in Becket e il suo Re e dallo stesso romanzo ispirato. E a soli quattro anni di distanza dall’altro film, complice il make-up cinematografico che lo rende molto più vecchio di quanto non sia, col passare del tempo e lo svanire della perfezione della sua bellezza, né la bravura né la bellezza stessa svaniscono. Enrico è invecchiato e senza eredi maschi, O’ Toole è invecchiato dal trucco ma non siamo alla corte d’Inghilterra. Anzi, per ironia della sorte, la parabola della sua vita artistica è direttamente proporzionale alla qualità di quei liquori forti che stavano per stroncarlo da giovane o, come si dice di alcuni vini, invecchiando migliora. Leggendo questa ultima frase, banale ma allusiva, alla fine di un pezzo scritto da un’ illustre sconosciuta, credo che Peter O’Toole inarcherebbe il sopracciglio ironicamente, come era solito fare.

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