Frozen. Il nuovo film della Disney parla di freddo e di amore. A Natale. Si può, subito dopo averlo visto, essere dei recensori freddi, obiettivi e razionali? FREDDI? Forse sì, dato il tema, ma si può mantenere un aplomb professionale dopo aver gustato eroine col naso all’insù, pupazzi col naso di carota e renne col muso vellutato come nella più pura tradizione delle fedeli, leali e sagge cavalcature Disney? Tipo il cavallo del principe de La bella addormentata nel bosco, ve lo ricordate? Migliore di quel pesce lesso del principe Filippo. Una recensione seria implica certo una documentazione accurata e un confronto con le ultime proposte in termini di animazione per capire l’evoluzione e i cambiamenti in atto nel campo. E lo faremo, certo, ci impegneremo a offrirvi tutto questo.
Prima però dovrò togliermi dalla faccia gli occhi tondi di meraviglia e i cuoricini effervescenti che salgono dall’anima contro tutte le forze di gravità, dopo un film Disney coi fiocchi. Manderò a letto la bambina interiore, che è emersa prepotente durante la visione, e analizzerò con cura il fenomeno dell’innovazione nella tradizione, e come in effetti le storie siano capaci di evolversi pur rimanendo le stesse. Perché qui c’è il principe azzurro e c’è la principessa e c’è il lieto fine, ma forse è più importante capire cos’altro c’è, e come ci siamo arrivati.
Nel reame di Arendelle il buon re e la buona regina hanno due belle figlie, ma sin dalla nascita la prima, Elsa, mostra un talento particolare: domina il ghiaccio. I genitori, si sa, per il bene dei figli compiono spesso sbagli madornali quando non sanno che fare ed Elsa non è in grado di gestire questa sua capacità, così le due sorelle crescono separate per paura che il potere della grande ferisca a morte la piccola, Anna. Dopo un primo incidente infatti i saggi – e simpaticissimi – troll tolgono ad Anna il ricordo dei poteri dell’amata sorella e avvertono che la paura è il nemico peggiore. E che parlano a fare?
Passano gli anni e il gelo che Elsa genera dalle sue mani è anche quello che regna nel suo cuore, causato dal terrore di poter far del male a qualcuno. Poi i genitori fanno quello che fanno spessissimo nel mondo Disney e in quello delle fiabe: muoiono, cosicché i figli siano costretti ad affrontare se stessi e il mondo. Potrebbero andare in pensione a Miami, sarebbe meno straziante, ma volete mettere? È come sottolineare la drammaticità insita nel dire “io”, e doversi assumere le proprie responsabilità nel mondo adulto, vedi anche Il re leone.
Anna, ormai cresciuta, è l’archetipo della principessa che muore dalla voglia di vivere, come Belle, come Mulan, come praticamente tutte le altre. Roba già vista quindi? No, non esattamente, in effetti. Non posso andare avanti senza menzionare il fatto che il film è un musical, e non nel solito modo Disney, ma nel senso più classico di vera e propria operetta musicale. Questo cambiamento comporta effettivamente un rischio per la discontinuità e può non piacere a chi non ama il genere, ma appare nonostante ciò riuscito.
Il dolore della crescita è sempre il tema principe nelle opere animate Disney e Frozen non può essere differente, ma uno dei must del genere viene sconvolto quando il ganzo dalle spalle larghe, principe e nulla di meno, appare e seduce con la sua perfetta e dolce affinità la deliziosa Anna. Come? Così presto? Non vorrei spoilerare neppure al mio peggior nemico, ma qui c’è un’interessante relativizzazione, una provocatoria messa in discussione del topic. I due si incontrano, si guardano e l’amore sboccia. Anna è un’eroina di seconda generazione indubbiamente: nello stesso solco di Mulan, di Jasmine, ma ancora di più di Merida, la protagonista di Ribelle – The Brave, che nemmeno ha un personaggio maschile di cui innamorarsi; Anna procede nella direzione dell’emancipazione femminile di cui la Disney si è fatta promotrice e il suo cedere di schianto all’attrazione e al dolce sentimento che la muove verso il giovanotto è talmente repentino e facile, e avviene così in anticipo nello svolgersi della storia, che lo spettatore avvertito annusa ben presto la relativizzazione che sta per arrivare.
In più è protagonista Elsa quanto lo è Anna: principessa, strega (viene in mente la parola “mutante”, con tutta l’accezione contemporanea, sdoganata dai fumetti, di diversa tra uguali/inferiori che la temono) si trova di fronte alla necessità di divenire regina, dopo tre anni dalla morte dei suoi, alla sua maggiore età, e quindi di “celare” al mondo i suoi poteri, “domare” questa diversità sentita come nemica e pericolosa, per poter fingere di essere come gli altri. E qui un’interpretazione è d’obbligo. Elsa ha potere, un potere pericoloso, enorme, ed è paralizzata dalla paura. L’esigenza del controllo sembra la cappa culturale e morale che vuole impedire alla donna la sua piena realizzazione, quasi a schiacciare la sua inevitabile superiorità.
La scena in cui Elsa fugge, stanca ormai di autolimitarsi da anni e quella della costruzione del suo castello, del suo mondo algido e bellissimo, sono fantastiche, di un colorismo poetico e stupefacente grazie agli effetti digitali, producono il meglio delle possibilità del mezzo; lei cambia pettinatura, abito, si crea una realtà sua, decide di seguire il suo cuore, comprende che quella che pare una maledizione “non è un difetto, è una virtù e io non la fermerò mai più, nessuno ostacolo per me perché d’ora in poi troverò la mia vera identità e vivrò per sempre in libertà”; “Il mio pensiero cristallizza la realtà, il resto è storia che passa e se ne va”: Elsa ci sta dicendo, cantando, che la donna non affermerà se stessa accettando con semplicità il suo potere, ma rinnegando i legami per poter prevalere. “Da oggi il destino appartiene a me”. Elsa si libera sì dai vincoli delle apparenze, dei suoi doveri, da quel che la società vuole per lei, ma è autoreferenziale, separata e in fondo triste. La sceneggiatura vuole farci pervenire il messaggio che questa repressione delle emozioni, questa assenza di rapporto sono limiti per la donna che ha potere, se rimane convinta che i legami e la dipendenza affettiva siano una debolezza da cui difendersi.
La versione originale della fiaba di Hans Christian Andersen, La regina delle nevi, parla di una regina crudele, con il cuore di ghiaccio, che lanciando frammenti di gelo li infigge nel cuore delle sue vittime, che diventano crudeli e fredde emotivamente. Qualcosa insomma è filtrato dell’intrigante fiaba, ma l’interpretazione del gelo è differente: il problema sta nella paura dell’emozione, non nella sua assenza. È l’interpretazione psicanalitica del male come problema umano risolvibile con un po’ d’amore, non come forza esterna e primigenia, come traspariva dalla fiaba di Andersen. Se tutto è nella mente e nel cuore dell’uomo, tutto dovrebbe quindi essere risolvibile. Il male puro è un pensiero insopportabile alla nostra concezione di moderni.
Interessante è dunque il contrasto fra emozione e gelo. Elsa crede che la sua libertà sia possibile solo a condizione della solitudine, e respinge il legame con Anna. Il vero amore, intorno al quale si svolge il bellissimo dialogo sulla slitta fra Anna e Kristoff – lo sfortunato venditore di giaccio con problemi di domanda e offerta nella nuova epoca glaciale indotta da Elsa – il vero amore, dicevamo, ha bisogno di una ridefinizione legata alla crisi dei vecchi stereotipi dell’amore romantico che vede la donna risolvere tutti i suoi problemi quando incontra l’uomo giusto. In questo ultimo film d’animazione targato Disney, coerentemente col percorso compiuto fin qui, la funzione maschile si priva di pretesa e diventa di supporto a una donna che se la sa vedere egregiamente da sola. Il vero amore alla fine è sempre quel quid che sblocca ciò che è rigido e sana ciò che sanguina: ma qui è la fine della solitudine e il calore dell’affetto che sciolgono il gelo della paura. La vera rivoluzione è allora aver dato una diversa interpretazione del vero amore, fuori dai luoghi comuni di tipo romantico e tradizionale. Il sacrificio di sé è ancora e sempre al centro di tutto, ma è diverso, meno convenzionale. Anna ed Elsa, sorelle e amiche, nel loro legame trovano la risposta.
Ultime notazioni: le musiche, come arrangiamenti e come esecuzioni, sono molto belle nella versione americana, vi consigliamo allora, quando sarà possibile, di vedere l’originale in inglese, nel frattempo vi regaliamo il link alla canzone cantata da Elsa/Idina Menzel QUI, ma vi consigliamo anche la versione di Demi Lovato QUI. Le coreografie, i movimenti dei personaggi, la loro caratterizzazione, i dialoghi sono squisiti, anche nei particolari minuti. Probabilmente il tutto risulta un po’ algido e cerebrale come le bellissime coreografie di ghiaccio, manca un po’ della capacità di travolgere di altri vecchi capolavori, ma la magia Disney non è andata sprecata sia per l’effetto generale sia per la volontà di esplorare il mondo femminile e la sua forza.
5 Readers Commented
Join discussionHai ragione, ho ascoltato le musiche, sono entrambe stupende ma la prima versione rimane più accattivante e interesante.
A me piace moltissimo la versione di Demi Lovato, rispetto a quella della doppiatrice ufficiale Idina Menzel.
Quella di Idina Menzel sembra più adatta a sottolineare che Elsa è e si sente più adulta, invece quella della Lovato a me pare in genere più “emotiva”, come dire…
Al cinema, a tutto volume anche la versione Italiana, quella durante il film, non quella dei titoli di coda, non è male:)
Sì, in generale ci sta bene! 😉