Quando un film d’essai approda agli Oscar (la cerimonia, per definizione, meno d’essai che si possa immaginare) vuol dire che tocca qualcosa d’importante. Quest’anno è la volta di Nebraska, l’ultimo lungometraggio di Alexander Payne, viaggio on the road in bianco e nero di un padre e un figlio attraverso la provincia americana.
Siamo lontani dall’impeccabile raffinatezza di The Artist, il bellissimo film di Michel Hazanavicius che nel 2011 conquistò cinque statuette, diventando il film francese più premiato di sempre. Si tratta di due film difficilmente paragonabili, è vero, ma che hanno in comune la capacità di raccontare, in modo estremamente personale, qualcosa sull’America. The Artist parlava dell’ascesa e della caduta del cinema muto, gli anni d’oro di Hollywood. Nebraska, invece, appare profondamente radicato nella contemporaneità.
Woody Grant è un anziano taciturno. Ha i capelli arruffati, lo sguardo un po’ perso e una giacca di qualche taglia più grande della sua. Negli occhi, un mondo intero di malinconia. Ha ricevuto un biglietto promozionale prestampato e crede di aver vinto un milione di dollari. Si mette quindi in viaggio a piedi verso Lincoln, Nebraska, per ritirare il premio, ma non fa in tempo a percorrere poche centinaia di metri, barcollando a bordo dell’interstatale, che viene fermato da una macchina della polizia e riportato a casa. Non poteva esserci incipit migliore, per un road movie. Il figlio di Woody, David, ha una quarantina d’anni, una fidanzata che se ne è appena andata di casa e un noioso lavoro come commesso. Negli occhi, la stessa malinconia del padre. Mosso da un vago senso d’affetto, decide di accontentare l’anziano genitore accompagnandolo fino in Nebraska, nonostante le critiche della madre e del fratello.
Quello che segue è un road movie dai paesaggi grigi e polverosi. Sono i grandi spazi della corn belt americana, con i suoi immensi campi dietro cui svetta qualche fabbrica abbandonata. Sono stazioni di servizio con pick-up parcheggiati, motel dalla carta da parati rovinata e banconi da bar in cui bere una birra guardando le partite in tv. Sono gesti di tenerezza impacciati tra un padre e un figlio che probabilmente non si sono mai parlati. E che, anche quando provano a farlo, lo fanno più a gesti che a parole. E ancora, le piccolezze e cattiverie dei parenti di provincia, pronti ad approfittarsi della vincita, e subito dopo, scoperta la verità, a voltare nuovamente la faccia. È la spietata crudeltà con cui l’intera America, a volte, è pronta a rinfacciarti tutto ciò che non sei riuscito a realizzare nella tua vita.
Il grande motore narrativo che manda avanti il viaggio, e quindi la storia, è infatti il fallimento, che si consolida come uno dei grandi leitmotiv dello storytelling americano degli ultimi anni. Forse non potrebbe essere altrimenti, in una società che ha fatto del successo economico uno dei propri capisaldi morali e che sta dolorosamente facendo i conti con l’infrangersi delle proprie illusioni, con la diminuzione continuativa dei salari reali e lo spostamento della ricchezza verso le economie emergenti. Ma non è tanto quello, il punto. Perché il vero fallimento dei protagonisti del film è di tipo morale, prima ancora che economico. La propria incapacità di avere desideri, ideali, di voler fare davvero qualcosa di bello, nella vita. La propria incapacità di comunicare con se stessi e con gli altri. Con il proprio passato (un padre) e con il proprio futuro (un figlio).
Il rischio della retorica è sempre dietro l’angolo, quando si raccontano storie come questa, di vite qualunque di piccoli uomini persi nelle lande desolate dell’America di provincia. Alexander Payne lo conosce, quel rischio, e forse ci gioca, sfiorandolo in qualche inquadratura e qualche frase, ma poi arretra sempre, grazie al suo impeccabile umorismo deadpan e alla sua estetica in bianco e nero, anche se sarebbe più corretto dire in grigio chiaro e grigio scuro. Alla fine, è la sincerità a salvarlo. La sincerità di una storia senza grandi traumi né grandi verità. Senza grandi morali né facili riscatti. E se è vero che dal fallimento non ci si può redimere così facilmente, si può cercare di adattarsi, di comprenderlo, accettarlo, e magari cambiare leggermente. Una storia di vite qualunque, imperfette, né nere né bianche, Nebraska, che non può che essere, a sua volta, né nera né bianca, nella sua sincera imperfezione.
Titolo originale: Nebraska
Data d’uscita: 22 novembre 2013 (USA), 16 gennaio 2014 (Italia)
Anno: 2013
Paese: USA
Durata: 110′
Regia: Alexander Payne
Sceneggiatura: Bob Nelson
Fotografia: Phedon Papamichael
Montaggio: Kevin Tent
Cast: Bruce Dern, Will Forte, Bob Odenkirk, Stacy Keach, Devin Ratray, June Squibb, Rance Howard
Produzione: Bona Fide Productions
Distribuzione Italia: Lucky Red