È sempre un piacere incommensurabile ricevere le parole e le emozioni di un’attrice che nell’immaginario contemporaneo incarna l’anti-diva, capace di calcare il palcoscenico con una bravura e una naturalezza, frutto di un talento e di una palestra straordinari.
Quando l’attrice è anche una donna vera e autentica, generosa e disponibile quant’altri mai, non si può non pensare a Elisabetta Pozzi. Le ho chiesto di parlare ai lettori della rubrica Allois ophtalmois del suo mondo di attrice votata al teatro e in special modo a quello classico; ha accettato con un entusiasmo fanciullesco e genuino, che la illumina, quando è sinceramente convinta dei progetti di lavoro, a cui si dedica con scrupolo e rigore. Ne è nato un percorso esclusivo di più puntate, spazi unici in cui affrontiamo la sua storia di donna innamorata del mito, espressione della storia sacra, e del teatro, la sua ragione di vita. In questa prima puntata dedicata alle passioni, il privilegio di approfondire la conoscenza di Elisabetta Pozzi.
Il primo ricordo di te come spettatrice.
Risale agli anni ’60, quando da Genova mi trasferii a Roma con la mia famiglia per seguire mio padre che lavorava presso il Ministero della Difesa. Più volte a cinque/sei anni fui condotta da papà al teatro “Sistina” per vedere le commedie musicali dell’epoca, quelle di Garinei e Giovannini: La strana coppia con Chiari e Rascel, Ciao Rudy con Mastroianni, Rugantino con Manfredi, ai quali chiedevo gli autografi. Erano spettacoli divertentissimi, coinvolgenti con una qualità attoriale straordinaria. Conoscevo, poi, persone che mi introducevano a incontrare gli artisti e venivo catturata dal mondo dietro le quinte.
Tornata a vivere a Genova, al primo anno del liceo classico fui immediatamente attratta dal teatro. Mia madre mi portò allo Stabile, dove ho iniziato a lavorare, e lì tra gli anni ’70-’80 si realizzavano spettacoli di primissima categoria, di una bellezza inimitabile perché c’erano enormi compagnie in cui l’attore giovane era già formato e preciso; la prima attrice in quel momento era Lina Volonghi e Luigi Squarzina dirigeva lo Stabile di Genova.
Furono stagioni che misero in scena capolavori con attori del calibro di Eros Pagni, la Volonghi appunto, Lucilla Morlacchi. Io ero attirata sì dagli spettacoli, ma in special modo dagli attori, io che ho una formazione da danzatrice.
Il primo incontro da “apprendista” attrice con il teatro e lo spettacolo: sacro fuoco dell’arte o impegno febbrile quotidiano?
La primissima esperienza è stata dettata da un’attrazione fatale verso il palcoscenico; aderii a una proposta dello Stabile rivolta agli studenti liceali e pochi anni dopo fui chiamata per un provino per Il fu Mattia Pascal. Ero ancora minorenne e Giorgio Albertazzi si presentò a casa per ottenere il consenso di mio padre, ignaro che avessi sostenuto il provino. Sentivo un richiamo irresistibile per il teatro, ricordo che finivo in fretta i compiti al pomeriggio per andarci e assistere alle prove. Grazie al senso critico derivatomi dai miei genitori, capii che avevo bisogno di un lavoro importante su me stessa per poter fare l’attrice, perché, come ho detto, avevo una formazione di danzatrice (uso ancora oggi la danza nei miei spettacoli), ma non avevo frequentato nessuna scuola di recitazione. Di lì cominciò la mia forsennata ricerca di maestri, dal primo, appunto Albertazzi, a Peter Brook, agli allievi della Bausch.
Da tempo pratichi un teatro di impegno profondo, di investigazione dell’attualità attraverso i miti e gli archetipi dell’Occidente greco ma non disdegni gli spettacoli in cui l’ironia è strumento di conoscenza della realtà: qual è la tua visione del teatro?
L’arte teatrale ha senso solo quando vive in quel momento in scena, è tra le arti la più effimera e quella immediatamente legata alla realtà contingente. Mi irrigidisco di fronte alle registrazioni perché il linguaggio e l’impegno cambiano. Invece lo spettacolo teatrale vive, pulsa di verità in quel momento e ogni volta. La necessità dell’attore deve tramutarsi nella necessità dell’altro ad ascoltarlo e questo è possibile attraverso l’onestà prima di tutto, e poi con la capacità dell’attore di capire come raggiungere nel modo migliore l’altro, se con la razionalità oppure l’emozione o la commozione.
In tempi in cui la superficialità e la velocità rischiano di polverizzare una identità culturale basata sulla ricerca e la profondità quale funzione riveste il teatro?
La sua funzione è raccogliere persone di tutte le generazioni su un tema, che può essere carico di ironia e leggerezza, ma che induce alla riflessione, perché attraverso il riso si può giungere a una comprensione profonda o profondissima della realtà. Per portare poi in scena i miti grondanti dolore e angosce ci vuole una capacità attoriale forte in grado di impressionare gli spettatori, di far passare le emozioni e tutti i mezzi (la musica, la danza, le immagini) sono funzionali ad arrivare al cuore delle persone. C’è infine un teatro, a cui non aderisco, estremamente leggero e volgare, che ha oggi più risposta anche da parte dei direttori di teatro, che accolgono testi senza corpo e sostanza.
La vita è l’arte degli incontri: quale artista con cui hai lavorato ti ha lasciato segni e tracce significative?
Albertazzi mi ha instillato il germe della conoscenza teatrale, mi ha fatto capire (e io l’ho subito fatto mio e per sempre) che essere attori non è solo impersonare un personaggio, ma è diventare parte attiva della costruzione dello spettacolo. L’attore, quindi, condivide con il regista la propria visione, ne studia il personaggio e l’autore, in base alle suggestioni ricavate inventa e costruisce un percorso per conseguire l’obiettivo, che è quello di rendere un personaggio peculiare e assolutamente tuo. La concezione del regista quale padrone dello spettacolo non la condivido. Sento ancora oggi di essere allieva di fronte a un autore sconosciuto, che devo conoscere e capire per renderlo pienamente mio.
Sicuramente Peter Stein, con cui ho lavorato per lo Zio Vanja, si avvicinava a questo approccio alla costruzione del personaggio e dello spettacolo. Poi l’incontro con Carmelo Bene ha aggiunto la consapevolezza che la voce è uno strumento musicale, che va studiata; successivamente la sinergia con mio marito Daniele D’Angelo, musicista, ha permesso la realizzazione di miei spettacoli in cui avviene la fusione di linguaggi diversi, da quello della parola, a quello corporeo e musicale.
Cosa vorresti che rimanesse della tua attività, un progetto a cui tieni e che ti ha molto impegnata.
Ogni progetto in cui credo mi vede completamente assorbita e coinvolta. L’ultimo che ho realizzato, Carta bianca al teatro stabile di Parma, mi ha molto appassionato e ho avuto la possibilità di raccontare il mio punto di vista su Cassandra, Clitennestra e Medea. Ebbene, focalizzare l’attenzione sui personaggi classici, dedicare loro ogni anno uno spettacolo, vedere cambiare i propri punti di vista a seconda di come uno vive e cresce, è per me un’attrazione indomabile. In questo momento, sento, ad esempio, forte il richiamo di calarmi nel mondo degli sconfitti, dei perdenti affrontando I Persiani di Eschilo.
Un progetto ambizioso al quale tengo moltissimo e ambisco a realizzare è quello di aprire a tutti un luogo che sia punto di incontro, di discussione e di confronto sulla materia teatrale e diventi una scuola non solo per attori, ma anche per tutti gli operatori del teatro (fonici, esperti di luci, scene ecc.). Mi auguro solo che non diventi un’utopia!
Elisabetta Pozzi è magnifica attrice ma prima di tutto donna speciale: quale la qualità che più apprezzi di una persona?
In una persona mi piace la capacità di entrare in relazione con me; io amo comunicare con gli altri, aprire ponti con le persone, quindi direi proprio la generosità; il donare parte di sé è la qualità che apprezzo di più. In un attore decisamente ammiro l’aura, che è qualcosa di insito e naturale. Mi trovo meglio con l’attore concreto, come credo di essere io, non amo gli attori retorici o gli istrioni. Un attore che pensa quando parla e capisce quello che sta dicendo è per me decisamente preferibile alla declamazione vuota ed esteriore.
Dopo questa prima puntata, non resta che aspettare il prossimo spazio, in cui esploreremo i mondi di Eschilo e Sofocle attraverso il colto e consapevole sguardo esperienziale di Elisabetta Pozzi.
3 Readers Commented
Join discussionE’ davvero un’ idea formidabile portare in questa rubrica la testimonianza di Elisabetta Pozzi. Mi ha interessato conoscere come sia nata la sua passione per il teatro e mi sorprende il bisogno di onestà che l’attrice prova nei confronti degli spettatori.Condivido la concretezza nei rapporti umani e il donarsi all’altro. Spero di leggere al più presto la prossima intervista!
La prossima puntata verterà sul teatro di Eschilo e di Sofocle, che la signora Pozzi ha attraversato più volte. Questo primo spazio è servito a farla conoscere, semmai ce ne fosse bisogno, ai lettori della rubrica Allois ophtalmois; mi fa molto piacere sapere che tu l’abbia apprezzato. Spero siano stati in parecchi, almeno i 25 lettori manzoniani!
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