Il lieto fine è il cancro della letteratura. Non è un termine che usi con leggerezza. Il lieto fine, dopotutto, è quello che tutti vorremmo – quello per cui speriamo, aggrappati alle pagine come un naufrago allo scoglio, esigendo dalla letteratura quello che la vita troppo spesso non ci concede. Fa che si ritrovino. Che lui le dica che la ama. Che l’eroe sopravviva al suo viaggio. Che vivano per sempre felici e contenti. Là, chiaramente, nel più classico dei lieto fine, quello delle fiabe, si cela la prima menzogna: nessuno vive per sempre felice e contento. Prima o poi si muore. Ogni vita umana finisce in tragedia. Nessun lieto fine si garantisce, a meno che non avvenga un gioco di prestigio.
In editoria le novità sembrano non avere fine. Dopo l’operazione “Mondazzoli” e l’arrivo in Italia di Harper Collins, debutta anche nel nostro paese Amazon Publishing, il ramo editoriale del colosso dell’e-commerce.
Il recente caso del romanzo After, scritto dall’americana Anna Todd, ha catalizzato l’attenzione del pubblico su una tipologia di siti fino a ora poco utilizzata in Italia: il social network per scrittori. Questi portali, tuttavia, sono da considerarsi degli utili laboratori di scrittura per gli autori wannabe o sono piuttosto delle incubatrici che gli editori usano per trovare il caso editoriale del momento?
È fatta. Mondadori ha acquistato la divisione Libri della Rcs. Dopo lunghi mesi di trattative, l’operazione che di certo muterà gli assetti e gli equilibri del mondo dell’editoria è giunta al termine: Segrate sborserà 127 mln di euro e il pagamento del prezzo finale prevede una clausola di aggiustamento (5 mln in più o in meno) legata ai risultati del 2015.
“L’arte non insegna niente, tranne il senso della vita.”
Henry Miller, The Wisdom of the Heart, 1941
Si dice a volte, in tono lieve, che un Paese senza un passato è un Paese senza un futuro; ma quale gravità acquisisce lo stesso aforisma se, a un certo punto, si riconosce in quel Paese il proprio. Il primo mese del 2014 si è trascinato dietro le questioni politiche, economiche e sociali lasciate in sospeso dall’anno precedente; mentre gli USA e gli altri Paesi dell’UE si lasciano la crisi alla spalle, la nostra polemica, inconcludente Italia continua a sguazzarci dentro, gareggiando alla meno con gli Stati ‘fanalino di coda’, smarrendo la propria identità, dimenticando se stessa.
La battuta presa da una vecchia puntata del David Letterman Show, quando gli venne chiesto cosa avrebbe voluto veder scritto sulla propria lapide, sta facendo il giro del mondo virtuale. Alla domanda del conduttore aveva risposto con un aneddoto: la frase che gli sarebbe piaciuta era quella trovata su un foglietto della tintoria, spillato a una giacca di pelle devastata da tempo e usura, imbrattata da figli presi in braccio, macchie di birra. Uno di quei capi però ai quali ci si affeziona talmente tanto da continuare ad indossarli, incuranti dello stato indecoroso.
Recentemente, a causa dell’ennesimo suicidio volontario del mio notebook (di cui piango ancora la perdita, sebbene non lo meriti), mi sono decisa a guardare sistematicamente gli episodi dell’anime di InuYasha grazie al mio fedele iPad. È stato amore, e quest’anime è riuscito a debellare la mia temporanea fissazione per la serie di Amelia Peabody di Elizabeth Peters, contribuendo però a crearne un’altra. Stamattina, nel momento in cui ho cominciato a scrivere, ho visto il finale della terza stagione, anche se a differenza delle serie tv americane InuYasha non è affetto dalla sindrome cliffhanger; guardando gli episodi con continuità non ci si accorge del cambio da una stagione all’altra.
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