Sarà per la suggerita somiglianza con Johnny Depp, ma Gerri Esposito, il poliziotto che indaga in un’assolata Bari, intriga parecchio. È un personaggio, quello nato dall’inventiva di Giorgia Lepore, che affascina perché è un outsider, o forse perché lui si sente tale, ma in effetti non lo è così tanto. Intendo dire che nelle regole del genere giallo la natura ferita di colui che indaga è un must.
A volte, leggendo un romanzo, è piacevole lasciarsi coinvolgere dalle vite di altri, mollando gli ormeggi e iniziando un viaggio del quale non si conosce l’approdo. Le emozioni possono anche travolgerti, dolorose come un pugno nello stomaco, soffocanti come un gorgo in mezzo al mare. Questo mi è accaduto cominciando la lettura di Cosa resta di noi, l’ultimo romanzo di Giampaolo Simi pubblicato a maggio da Sellerio e ambientato in Versilia.
In una Padova di fine Ottocento, dove le classi sociali vivono appieno la caratterizzazione dei loro ceti, dove la povertà e la pellagra non risparmiano situazioni già al limite della sopravvivenza, dove gli uomini cercano consolazione (o forse una fuga alle loro tragedie) nei bordelli più malfamati, si sviluppa la trama di questo romanzo.
Quella che ci apprestiamo a fare è una recensione a quattro mani, scaturita dalla lettura del romanzo Pallida Mors di Danila Comastri Montanari, l’ennesimo caso da risolvere per Publio Aurelio Stazio coadiuvato dal (per nulla) fido segretario Castore e dall’amica Pomponia. Gabriella Parisi ed Elisabetta Ossimoro, entrambe affezionate lettrici di questa serie di gialli, si sono infatti date appuntamento per raccontare le loro impressioni di lettura.
Dopo La donna in gabbia e Battuta di caccia, questo è il terzo episodio, tradotto in Italia dalla Marsilio, della saga dello stralunato detective Carl Mørck e della sgangherata ma efficacissima sezione Q della polizia di Copenhagen; fra le consuete medaglie delle frasi roboanti di annuncio vi è la menzione del fatto che questo cosiddetto giallo scandinavo abbia venduto nel mondo 10 milioni di copie. Sono numeri.
Quando giunge la newsletter della Longanesi con la notizia di un nuovo romanzo di Ian Rankin, io assumo la stessa espressione di un bambino di cinque anni dinanzi all’albero di Natale. Poco importa che il volume abbia una cover che ricorda il Bates motel, che il titolo c’entri poco con l’originale – Standin on another’s man grave – o che abbia una fascetta di cui non si sentiva il bisogno. (Comunicazione per gli editori: non mettete le fascette. Risparmiate alberi, soldi e inchiostro. Vi prego.) È sempre una festa.
Agatha Raisin è un personaggio molto intrigante. Più giovane di Miss Marple (evidente l’omaggio di M.C. Beaton ad Agatha Christie), ma comunque di mezza età, l’investigatrice si porta dietro tutte le contraddizioni dei suoi cinquant’anni: il volersi mantenere in forma e non farsi sconfiggere dal passare del tempo; il voler trovare l’uomo giusto dopo aver trascorso i precedenti decenni a costruirsi una carriera che l’ha resa sì indipendente, ma l’ha anche inaridita e resa cinica. Prendiamo oggi in esame due casi di questa detective, rispettivamente il sesto e il settimo della serie.
L’altrove è qui.
Cercherò di essere i tuoi occhi, Jorge. Seguo il consiglio che mi hai dato quando ci siamo salutati: escribe, y recordaràs. Cercherò di ricordare, con precisione, questa volta. Perché tu possa scorgere quel che ho visto, svelare il mistero e arrivare alla verità. Quando inventiamo, lo facciamo per ricordarla più precisamente.
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