Accogliere Piergiorgio Pulixi nella mia piccola libreria per la presentazione del suo romanzo La notte delle Pantere, secondo romanzo della saga noir che ha per protagonisti Biagio Mazzeo e i poliziotti criminali della Narcotici, è stato un po’ come avere un amico a cena.L’atmosfera è stata fin da subito lieve e informale. Piergiorgio Pulixi è uno scrittore di origini cagliaritane, classe 1982. Allievo di Massimo Carlotto, uno dei maestri del noir mediterraneo insieme a Jean-Claude Izzo, appartiene al gruppo di scrittori denominati collettivo Sabot. Affabile nei modi, preparato e ben disposto al confronto con i lettori, appartiene alla categoria degli scrittori, forse in via d’estinzione, che parlano più attraverso i propri romanzi che attraverso la propria immagine mediatica. Non risponde con l’abile scorciatoia degli slogan coniati dal marketing. Ogni domanda è per lui un’opportunità per illustrare i suoi intenti, dimostrando un grande amore verso il proprio lavoro e verso le sue creature: i personaggi. Sono loro, eroi complessi e imprevedibili, “giganti fragili dalle gambe d’argilla”, che ci parlano di lui, di noi e di un mondo grigiastro e brumoso, dominato da una moralità fugace. Nel corso di quest’intervista, Piergiorgio Pulixi dimostra come una grande saga umana, classificata, per semplificazione e ovvi motivi di marketing, come un thriller d’azione basato su violenza e corruzione, sveli in realtà una commistione d’influenze letterarie, un misto di epica classica, drammaturgia shakespeariana, noir e romanzo d’appendice. Una grande epopea umana in cui Amore, Destino e Inganno sono i veri, grandi protagonisti.
Dopo un caloroso benvenuto a Piergiorgio Pulixi, iniziamo la nostra intervista.
La nostra libreria porta, nel suo nome, Il Gorilla e l’Alligatore, un piccolo omaggio a Massimo Carlotto, uno dei massimi esponenti del noir mediterraneo, nonché tuo maestro e amico. È vero che il vostro incontro è avvenuto proprio in una libreria?
Sì è vero. Frequentavo, insieme ad altri ragazzi, la libreria gestita dalla moglie di Massimo a Quartu, in provincia di Cagliari. Lì è nato il progetto del collettivo Sabot. Come nelle antiche botteghe artigianali, dove il maestro insegnava agli allievi l’uso degli strumenti del mestiere, Massimo ha cercato di insegnarci come si realizza un’inchiesta giornalistica, come si stende una storia e come si creano i personaggi, coinvolgendoci in un progetto concreto, Perdas de Fogu, un romanzo-inchiesta sull’inquinamento provocato dai poligoni militari in Sardegna. Da allora la collaborazione è sempre continuata e, anche se noi scrittori abbiamo preso strade diverse, lui rimane sempre il nostro maestro.
Fai parte di un collettivo di scrittori chiamato Sabot e creato appunto da Massimo Carlotto. Raccontaci qualcosa di questo progetto…
Nasciamo come gruppo di autori che, forse un po’ romanticamente, vorrebbero scardinare il meccanismo di disinformazione che regna in Italia. Pensiamo che, attraverso il romanzo noir mediterraneo e la lezione dei “maestri” del genere, Jean-Claude Izzo e Massimo Carlotto, sia possibile veicolare messaggi di denuncia e portare alla luce realtà oscurate dai media. Per la scelta del nome, Sabot, ci siamo ispirati allo zoccolo che gli operai, durante la rivoluzione industriale, gettavano negli ingranaggi delle macchine per fermare la produzione. Attraverso i nostri romanzi vorremmo appunto “sabotare” la macchina della menzogna e della disinformazione.
Da cui il gioco di parole Sabot/age?
Sì, questo è il nome della collana delle edizioni E/O che ospita alcuni dei nostri romanzi ed effettivamente rappresenta una linea di continuità. I libri di questa collana sono “armi” d’informazione. Non sono accomunati dal genere, piuttosto dal tipo di tematiche trattate: soggetti scomodi, che non trovano molto spazio sui media tradizionali.
Dedichi il romanzo a Massimo Carlotto “maestro inarrivabile e amico generoso”. In quali aspetti, come scrittore e come uomo, vorresti somigliargli?
Massimo è una persona molto generosa e l’ha dimostrato con la creazione del collettivo Sabot e la scelta di insegnare ai giovani i trucchi del mestiere. È una dote insolita, in un paese come il nostro, dove solitamente chi ha il sapere se lo tiene ben stretto. Da un punto di vista tecnico lo ammiro per la capacità di elaborare trame estremamente complesse, in cui alla fine tutto torna. È un tratto quasi cinematografico, in cui sicuramente eccelle.
Il 28 maggio è uscito con Rizzoli un nuovo romanzo scritto a sei mani insieme a Stefano Cosmo e Ciro Auriemma del collettivo Sabot dal titolo Padre Nostro. Quali sono secondo te le principali difficoltà e i lati positivi di una scrittura a più mani?
La scrittura di squadra è molto diversa da quella individuale. Adottiamo una tecnica presa in prestito dal cinema: ci riuniamo e creiamo insieme una storia e i personaggi. È una fase di confronto vivace. Una volta stabiliti i punti fermi, procediamo con la scaletta e dividiamo il romanzo in scene, che vengono poi distribuite per la stesura. Il collage finale è opera di un editor che ricompatta il tutto, uniformando il contenuto. La condivisione ti costringe a un confronto continuo, è un percorso che ti arricchisce ma anche molto faticoso. Quello che sulla carta appare idilliaco è in realtà frutto di guerre fratricide.
Passiamo ora al romanzo La notte delle Pantere, seconda puntata della saga che ha avuto inizio due anni fa con Una brutta storia. Parlaci un po’ del romanzo: da dov’è nata l’idea non proprio politically correct dei poliziotti corrotti e quali sono i tratti salienti del tuo romanzo?
Solitamente partiamo sempre dal reale, da atti giudiziari, inchieste o anche da piste suggerite dai nostri lettori. Per Una brutta storia, mi sono imbattuto per caso in un articolo di cronaca che parlava dell’arresto per corruzione di 16 poliziotti, un’intera sezione della Polizia di Stato. Si trattava di una banda in azione da 10 anni, che era riuscita a mettersi da parte un bel “tesoretto” come fondo pensione. Ciò che mi aveva più colpito della banda, era il legame familiare che si era instaurato tra i membri e che andava ben oltre il vincolo di sangue. Era cementato dalla comunione d’interessi nel malaffare e dal sentirsi parte di un branco. Partendo da questo fatto di cronaca, ho maturato l’idea di descrivere, in un romanzo, cosa accade nell’animo umano quando la macchia della corruzione investe i protagonisti e li contagia, estendendosi come un tumore. In questo gruppo di poliziotti corrotti c’era un leader, una figura di spicco, che ha assunto le sembianze di Biagio Mazzeo. Il titolo del romanzo è ambivalente. Dal punto di vista poliziesco rappresenta il culmine di un’azione investigativa, quando le pantere della polizia partono di notte per far scattare gli arresti. Metaforicamente l’espressione si riferisce a una “notte degli animi”, un momento di climax narrativo, in cui i personaggi devono fare i conti con le conseguenze delle proprie scelte. Come recita la Bibbia: “tu sei libero di scegliere ma non sei libero dalle conseguenze delle tue scelte”.
L’ambientazione è curiosa. S’intuisce che la vicenda si svolge in una città del Nord Italia, presumibilmente nel nord est e vicino al mare, ma tu non nomini mai il nome della città. La definisci solo “La Giungla”. Perché questa scelta?
Mi sono ispirato all’87° distretto di Ed McBain. Il giallista americano non nomina mai New York nei suoi romanzi, la chiama semplicemente “isola” e questo gli garantisce maggiore libertà di manovra. Nel mio caso, parlando della corruzione, non volevo avere vincoli geografici. Desideravo che la Giungla fosse la summa di tante città del Nord Italia che ho conosciuto, una sorta di Frankenstein dei loro vizi. L’unico luogo preciso che cito nel romanzo è la Lombardia (scritta sempre in corsivo), che non indica la regione geografica ma designa, nel gergo della ‘Ndrangheta, il sistema d’infiltrazione criminale. Ho voluto raccontare ciò che i giornali all’epoca non trattavano, vale a dire la guerra in corso tra la nuova ‘Ndrangheta, quella dei criminali nati e cresciuti al nord, e la ‘Ndrangheta del sud; un conflitto per guadagnarsi l’indipendenza, come accadde ai tempi di Lucky Luciano, tra la mafia siciliana e quella americana.
L’ispettore Biagio Mazzeo è un personaggio estremamente complesso, caratterizzato da un forte dualismo. In Una brutta storia c’è una descrizione significativa di quest’ambivalenza: «per un istante desiderò essere un uomo migliore di quello che era. […] Ma fu solo un attimo. […] Se fosse stato un uomo onesto non sarebbe mai diventato ricco». Raccontaci qualcosa di lui…
Mazzeo è un personaggio complesso ma anche molto pratico. È violento nel suo agire e nel suo amare. Ha forti scatti d’ira e momenti di grande generosità. Ha mille facce e in questo è profondamente amletico. Non riesce a indossare la maschera giusta senza che gli pruda la pelle. Biagio non ha mai avuto una vera famiglia nella sua infanzia e nutre un forte desiderio di riscatto che si concretizza nella sua idea di clan. Lo definirei uno psicologo di strada con abili capacità manipolatorie. In lui si fondono il Principe di Machiavelli e l’Arte della Guerra di Sun Tzu. Uno degli aspetti più interessanti di Mazzeo è il suo essere in continua evoluzione. Dall’incontro con Sergej Ivankov, mafioso ceceno ed ex professore di filosofia, divenuto ribelle durante la guerra, la sua personalità cambia. Da istintivo passionale, Biagio cerca di diventare come l’eroe ceceno, freddo e razionale. E in questo suo profondo conflitto interiore finisce con il trovarsi anche solo, poiché la solitudine è lo scotto che paga ogni vero capo.
«[…] costruisce faticosamente la propria identità e il proprio dominio […] rinunciando alle sirene, a Calipso, al fiore di loto ossia resistendo alla tentazione di abbandonarsi alla beata indifferenza in grembo alla natura». È una definizione che Claudio Magris dà di Ulisse, visto come archetipo di eroe moderno. Quanto somiglia all’eroe solitario de La Notte delle Pantere?
Mentre leggevi la definizione di Magris su Ulisse, io pensavo a Tony Soprano. Sebbene possa far sorridere, in realtà dimostra come la complessità narrativa sia ormai dominante anche nelle serie televisive. Trovo che ci sia una grande eredità epica e drammaturgica nel mondo delle fiction ed è sicuramente un mondo che mi ha ispirato. Mazzeo somiglia tanto a Ulisse quanto a Tony Soprano. In questa saga ci sono moltissimi tratti dell’epica. Il mio intento è stato fondere l’epica narrativa con la tragedia shakespeariana e con il noir. Ho dato maggiore profondità ai personaggi usando sistemi ispirati a Dickens, Dumas, Victor Hugo, per regalare ai lettori un viaggio emotivo e un livello d’intrattenimento più alto.
La saga ricorda il genere epico anche per la presenza determinante del Fato. Gli assegni un ruolo importante?
Il Fato ha lo stesso ruolo che aveva in Euripide e in Shakespeare: le nostre vite sono governate dal caso, cerchiamo di controllare tutto, poi basta un nonnulla per rovinare tutto. Nella saga il Fato risponde anche a un’esigenza narrativa. I personaggi infatti si rivelano quando li metti spalle al muro, quando il destino si fa sentire prepotentemente. In questo senso forse il mio Fato svolge maggiormente una funzione narrativa e meno moralistica rispetto al ruolo assolto nel teatro greco.
Nonostante sia un criminale, Mazzeo ha un personale codice etico. Per esempio, non stringe la mano agli spacciatori perché li disprezza. Eppure si arricchisce sfruttando il mercato del narcotraffico. Come spieghi quest’apparente contraddizione e quali sono secondo te i valori fondamentali nell’etica di Biagio?
Biagio ha un’etica ondivaga, sono gli eventi a plasmarla. Per lui tutto è strumentale e la sua esistenza è una partita a scacchi in cui ogni pedone è sacrificabile per un fine superiore. È un criminale con la divisa; si è sporcato talmente tanto che non può più tornare indietro. Il suo amore è l’unico vero ostacolo al suo divenire un criminale perfetto, freddo e calcolatore. L’amore svolge un ruolo fondamentale nell’intera saga. Tutti i personaggi in realtà compiono scelte e agiscono in funzione dell’amore: verso un familiare, per una donna, per il brivido, per se stessi o per il desiderio di una vita diversa. Il primo gesto criminale di Biagio, da bambino, è il furto di una bambola ed è un gesto compiuto per amore della sua fidanzatina.
Nei due romanzi ci sono sempre alcuni poliziotti ‘buoni’, che cercano di bloccare la squadra di Mazzeo, ma sono ostacolati dai vertici della polizia, secondo i quali «senza Mazzeo la città sarebbe da tempo nelle mani della criminalità organizzata». In La notte delle Pantere i membri dei Servizi usano l’espressione ubi maior per giustificarsi sull’uso dei metodi non del tutto convenzionali nella lotta al crimine. L’unica strada per combattere la criminalità è usare i suoi stessi mezzi?
Diciamo che Mazzeo è l’uomo che fa il lavoro sporco. I suoi metodi non sono convenzionali però sono fruttuosi. Ha impedito che nella sua città si scatenasse una guerra per il controllo del narcotraffico scendendo a patti con i trafficanti di droga ed è estremamente machiavellico in questo. Come autore non posso giudicare i mie personaggi. Da uomo e cittadino mi chiedo se per combattere il male si debba scendere al suo stesso livello. Vorrei che non fosse così,però credo che più ci si fa trascinare dal desiderio irrefrenabile di sconfiggere il crimine, più si finisce con l’assomigliargli.
Le Pantere sono la famiglia di Mazzeo, il suo clan. Qualche considerazione su questo branco…e c’è qualcuno tra di loro al quale sei più affezionato?
Mazzeo si è costruito un clan perfetto. Per fare in modo che tutti i membri della sua famiglia si affidassero a lui, ha scelto le persone “giuste”, con ferite nel cuore, sulle quali può esercitare un’influenza forte, grazie al suo carisma. Ognuno di loro ha un vuoto esistenziale, che Biagio colma con un senso di famiglia, protezione, ambizione e amore. Le Pantere sono uno strano branco, una famiglia unita ma che nasconde in realtà molti segreti, che ne minano l’equilibrio. Per quanto riguarda i personaggi preferiti, sicuramente Biagio Mazzeo è uno di quelli che mi affascinano maggiormente, perché non è mai statico. È totalmente imprevedibile, nelle sue scelte e nelle sue azioni. Giorgio Varga, che è un po’ il suo angelo custode, è un altro tra i miei prediletti. Lui però è estremamente prevedibile, a differenza di Biagio. È un personaggio taciturno, un gigante albino che non parla quasi mai, ma quando lo fa, risulta tagliente e incisivo.
Lo stile del romanzo è molto cinematografico, nei dialoghi, nel ritmo, nell’uso del montaggio alternato. Pensi che questa saga possa diventare un film?
È quello che tutti i romanzieri si augurano. Tempo fa ci sono state delle proposte, ma con la crisi economica i progetti si sono fermati. Speriamo in futuro.
Abbiamo parlato prima del tuo romanzo a sei mani con il collettivo Sabot. Altri progetti per il futuro? A quando la nuova puntata delle Pantere?
Il terzo volume della saga uscirà nel 2015. A Novembre è uscito L’Appuntamento, un romanzo che tratta il tema della violazione della privacy, nel quale ci si domanda cosa succede se qualcuno ruba l’identità di qualcun altro sui social e s’impossessa della sua vita virtuale. Sempre per il 2015 è infine prevista la pubblicazione di una nuova saga noir, che questa volta ha per protagonisti alcuni poliziotti buoni, ben diversi dal clan delle Pantere di Biagio Mazzeo.
A questo punto non resta che aspettare il prossimo romanzo.